Fuori Trump resta il trumpismo. Un’eredità ingombrante, visto che 71 milioni di elettori americani hanno votato per la riconferma dell’inquilino della Casa Bianca. Un’eredità che adesso sarebbe sciocco liquidare come il lascito avvelenato del tycoon populista.
Invece di continuare a descrivere Trump come il pericolo pubblico numero uno, l’impresentabile narciso che ha spaccato l’America in due come una mela, sarebbe forse il caso di analizzare le ragioni della sua presa su quell’America profonda, che ancora oggi si rifiuta di liquidarlo come l’uomo nero, il politico “brutto, sporco e cattivo”. Immagine cara a tanti progressisti, negli Usa e fuori, che si guardano bene dall’analizzare le cause del trumpismo.
Ma a fornire la prima chiave di lettura ha provveduto lo stesso Trump, poco dopo la chiusura delle urne, quando, avvicinandosi la vittoria di Biden, ha minacciato una battaglia legale senza esclusione di colpi contro chi gli avrebbe “rubato” la Casa Bianca con una serie di brogli elettorali. Insomma un complotto per favorire il candidato democratico organizzato dai “poteri forti”, ossia dal “sistema” costituito da “media”, “finanza”, Silicon Valley e gran parte delle multinazionali Usa.
E siamo al cuore della questione. L’accusa ai “poteri forti” rappresenta fin dall’inizio l’essenza del trumpismo, la chiave del successo del tycoon che, in questa maniera, è riuscito a proporsi come leader politico delle fasce più deboli della popolazione Usa che stanno precipitando sempre più in basso nella scala sociale.
Tanti poveri, sentendosi traditi dai progressisti, alla fine hanno paradossalmente scelto come paladino un miliardario che, almeno a parole, attaccava i “poteri forti” responsabili del fossato esistente tra ricchi e poveri.
Quindi adesso è troppo facile, troppo comodo e troppo ipocrita prendersela con l’orco Trump. Senza domandarsi perché la classe politica progressista non ha fatto quello che la sinistra dovrebbe fare negli Usa e fuori: difendere i più deboli.