«In solo due sedute» è fondato il Partito comunista italiano. Sergio Gentili racconta la scissione di Livorno rievocata dai giornali nei giorni scorsi. Narra come nacque il 21 gennaio 1921 il Partito comunista d’Italia, poi divenuto Pci. I delegati della “frazione comunista” lasciarono il Teatro Goldoni, nel quale era in corso il XVII congresso del Psi, al canto dell’Internazionale e fondarono il nuovo partito al Teatro San Marco.
Volevano la rivoluzione affascinati dal mito sovietico, contavano sulle masse scosse, lacerate e impoverite dal flagello della Prima guerra mondiale. Erano una minoranza. Sergio Gentili scrive ne Il Partito comunista italiano. Storia di rivoluzionari. 1921-1945: «La scissione della frazione comunista avviene con un numero esiguo di delegati, circa un quarto: non molti». La grande maggioranza dei delegati socialisti, precisa l’autore nel libro pubblicato dalla casa editrice Bordeaux, aderivano alla corrente massimalista di Giacinto Menotti Serrati, poi seguivano i comunisti e infine, in netta minoranza, c’erano i riformisti guidati da Filippo Turati.
È un racconto e una analisi fatta dall’”interno”: Gentili, ambientalista, è stato un funzionario del Pci, è stato eletto deputato nelle liste Pds-Ds, ha prima aderito al Pd e poi ha lasciato il partito fondato da Walter Veltroni.
Gli anni dal 1921 al 1945 sono un periodo di “ferro e di fuoco” per l’Italia e il mondo. Amedeo Bordiga, il primo segretario del Pcd’I, era un intellettuale settario che guidò la scissione dal Psi mentre già imperversavano le violenze delle squadracce fasciste. L’unità della sinistra e del movimento operaio fu spezzata proprio alla vigilia della vittoriosa Marcia su Roma di Benito Mussolini. Invece della rivoluzione comunista sul modello leninista arrivò quella fascista, una dura e violenta dittatura sostenuta dalla borghesia italiana.
Gli anni seguenti furono terribili. Nel 1924 una squadraccia fascista uccise il deputato socialista Giacomo Matteotti che aveva denunciato alla Camera i brogli elettorali. Il governo Mussolini barcollò ma non cadde per le divisioni degli antifascisti. Anzi Mussolini varò le leggi speciali e arrivò il regime totalitario.
Antonio Gramsci nel 1924 fu eletto segretario. La sua strategia era raffinata: conquistare il potere non con una insurrezione armata ma usando l’egemonia culturale per acquisire i consensi dei lavoratori e per espugnare le “casematte” della società borghese costituite da associazioni, ceto medio, sindacati, leghe di mutuo soccorso, giornali, istituzioni. Il rapporto con il Partito comunista sovietico fu critico, ma ebbe poco tempo. Fu arrestato e incarcerato dal fascismo e morì in prigione.
L’Europa era scossa dalla tempesta delle dittature di destra sul modello del fascismo. I partiti antifascisti erano divisi e a sinistra imperversava la guerra del Partito bolscevico e del Pci contro “i socialtraditori” socialdemocratici. La “guerra intestina” a sinistra è stata una iattura drammatica interrotta solo due volte negli anni esaminati da Gentili: nel 1935 con la politica dei Fronti popolari (nel 1936 il socialista Léon Blum divenne presidente del Consiglio in Francia), nel 1941 con l’invasione di Adolf Hitler dell’Unione sovietica.
Il rapporto tra Pci e Pcus fu stretto e particolare. Palmiro Togliatti dovette fare i conti con Iosif Stalin. Il dittatore sovietico non amava i concorrenti nel partito: torturò, incarcerò e fucilò quasi l’intero gruppo dirigente bolscevico e il vertice dell’Armata rossa per non avere avversari. La stessa fine fecero molti dirigenti e militanti dei partiti comunisti europei, non escluso il Pci. Togliatti, di casa a Mosca (il suo pseudonimo nella III Internazionale era Ercole Ercoli), si salvò. Teorizzò e praticò “la specificità” del Partito comunista italiano. Quando nel 1944 tornò in Italia impose la “svolta di Salerno”: non solo la collaborazione con tutte le forze antifasciste nel Cln (Comitato di liberazione nazionale) ma l’intesa di governo con le stesse forze monarchiche legate a Vittorio Emanuele III, il re che permise il successo della Marcia su Roma. Togliatti entrò nel governo Badoglio e poi fu ministro della Giustizia nell’esecutivo Parri e in quello di De Gasperi. In quel ruolo decise l’amnistia per i fascisti.
Togliatti, non potendo fare la rivoluzione in Italia (un paese assegnato agli Alleati occidentali dopo la fine della Seconda guerra mondiale), cercò di incanalare le masse operaie e proletarie verso la democrazia. Ci riuscì. Trasformò il Pci da partito di militanti in partito di massa. Si alleò con il Psi, lo superò e trasformò il Pci nel più grande partito comunista dell’Occidente. Nel partito, sottovoce, lo chiamavano “il Migliore”.
Pietro Nenni nel 1956, dopo l’invasione sovietica dell’Ungheria, emancipò il Psi dalla subalternità frontista. Il segretario socialista voleva «il socialismo dal volto umano».
Togliatti era un fine intellettuale ma un ferreo realista. Sapeva conciliare dirompenti contraddizioni politiche. Era attento alle direttive di Mosca ma sapeva di vivere in Italia, in Occidente. Al rivoluzionario Pietro Secchia un giorno rimproverò di non interessarsi al calcio: «E tu, pretendi di fare la rivoluzione senza sapere i risultati della Juventus?».