Dimissioni Zingaretti. Ognuno ha i propri guai. Draghi disgrega i poli come Macron in Francia. Il presidente del Consiglio a meno da un mese dalla nascita del suo esecutivo sfalda M5S, Pd e Leu, il cosiddetto “nuovo centro-sinistra”. Zingaretti giovedì 4 marzo ha annunciato le dimissioni da segretario dei democratici.
Non ha retto alle sempre più forti critiche provenienti dall’interno del partito mentre nei sondaggi il Pd cade attorno al 20% dei voti. Sono soprattutto quattro le accuse: 1) la subalternità ai cinquestelle (Renzi e Calenda se ne sono andati soprattutto per questo motivo); 2) la proposta di “alleanza strategica” tra Pd e M5S; 3) l’assenza di un progetto politico riformista credibile e l’annessa incapacità di incidere; 4) il sì alla presenza della Lega, la destra sovranista di Salvini, nell’esecutivo Draghi di unità nazionale.
C’è chi non ha fatto mistero delle critiche (il governatore dell’Emilia Romagna Bonaccini, i sindaci di Bergamo Gori e di Firenze Nardella) e chi è rimasto in un ostile silenzio (gli ex renziani e Franceschini, il capo della corrente più importante dei democratici). Così Zingaretti, dopo aver resistito nel bunker della segreteria per mesi rifiutando di convocare un congresso, ha annunciato le dimissioni. E lo ha fatto in un modo inusuale: non alla riunione del 13 marzo dell’assemblea nazionale del Pd ma comunicando su Facebook la decisione. Potrebbe puntare a una conferma se la possibile candidatura Bonaccini per la segreteria non riuscisse a decollare.
Se possibile i grillini stanno ancora peggio. Da oltre un anno sono senza un capo politico eletto dopo le dimissioni di Di Maio in seguito a disastrose sconfitte elettorali (nelle europee del 2019 e nelle seguenti amministrative). Una quarantina di parlamentari sono stati espulsi (e hanno costituito un gruppo autonomo) perché hanno votato contro o non hanno votato a favore del governo tecnico-politico di Draghi. Beppe Grillo ha convinto l’ala governista pentastellata (capitanata Di Maio) ma non quella antagonista. Il comico genovese ha perfino lodato il presidente del Consiglio definendolo «un grillino» e ha corteggiato Giuseppe Conte per insediarlo come nuovo leader cinquestelle. Tuttavia questa volta ha funzionato solo in parte il suo carisma: non ha convinto chi è rimasto legato all’identità rivoluzionaria e anti élite delle origini (come Davide Casaleggio e Di Battista). Si susseguono le rotture interne con una possibile pericolosa scissione.
Anche Leu si è spaccata a metà. Articolo 1-Movimento Democratico e Progressista ha votato a favore dell’esecutivo Draghi e il suo leader Speranza è rimasto ministro della Salute. Sinistra Italiana guidata da Fratoianni invece ha votato contro ed è andata all’opposizione con un secco no ad andare al governo con “la destra” di Salvini.
Il presidente del Consiglio, chiedendo la fiducia al Parlamento, ha invocato l’unità per battere l’emergenza sanitaria del Covid-19 e quella economica-sociale. L’ex presidente della Bce si è reso conto dei problemi: il governo opera in «un nuovo inconsueto perimetro di collaborazione». Il terreno è minato. È difficile la convivenza della sinistra con Berlusconi e con Salvini, è complicata la coabitazione dei cinquestelle con Draghi e con Berlusconi, fino a ieri avversari demonizzati.
Non solo. L’ala populista-sovranista della Lega legata a Salvini vede ancora come un nemico l’europeista Draghi mentre la parte moderata del Carroccio vicina al ministro Giorgetti considera il presidente del Consiglio come l’ultima carta per salvare l’Italia dal naufragio. Le due anime del Carroccio alla fine potrebbero anche dirsi addio.