Nelle antiche comunità degli indiani d’America, i vecchi saggi e i giovani guerrieri, si riunivano per capire come resistere all’avanzata degli yankee, tanto più forti di loro. «I vecchi saggi ritenevano che, se fossero stati più giovani, con la loro guida esperta gli indiani si sarebbero salvati. I giovani guerrieri ricordavano ai vecchi saggi che a subire le prime gravissime sconfitte erano stati proprio loro, lasciando in eredità una situazione già irrimediabilmente compromessa. Si trovavano alla fine concordi nel ritenere che il nemico yankee volesse la loro distruzione e soprattutto avesse i mezzi per realizzare il proprio obiettivo».
Metafora trasparente del vissuto socialista post-tangentopoli con le diatribe infinite e tutt’oggi vivissime – basta leggere nelle pagine di Facebook – tra i compagni che avevano tentato la strada identitaria della rifondazione e quelli che invece avevano cercato tout court la vendetta, disposti ad allearsi anche con la destra pur di vedere la sconfitta dell’odiato nemico. Alla fine, conclude Roberto Villetti, chi ha avuto la meglio tra questi due gruppi in sostanza è stato chi ha cercato la vendetta. Oggi non ci sono più socialisti con la loro bandiera in Parlamento e quelli eletti da Berlusconi oggi assistono alla distruzione progressiva e inesorabile degli ex nemici comunisti. Hanno avuto la loro vendetta. «Ma si è trattato di una vera vittoria?»
È con questa amara domanda che si chiude la La strategia delle riforme (il Mulino), una raccolta di saggi di Roberto Villetti, curata e impreziosita da una lucidissima prefazione, di Alessandro Roncaglia, compagno e amico fraterno di lunghissima data dell’autore.
Sono pagine preziose, sia per il loro intrinseco valore intellettuale, sia perché ci restituiscono uno spaccato della crescita politica dell’A., dagli anni della FGS fino alla conclusione della sua carriera politica con le elezioni del 2008.
La lettura illustra meglio di qualunque altro discorso la differenza qualitativa, meglio sarebbe dire il baratro, di competenze politiche ed economiche, di sensibilità sociale, della classe dirigente politica della cosiddetta Prima Repubblica, rispetto alla stragrande maggioranza di quella emersa dopo Tangentopoli. I saggi (due in collaborazione con Roncaglia) già pubblicati, in parte teorici, vertono sul
lavoro e il capitalismo industriale, su Riccardo Lombardi e la strategia delle riforme, sul movimento dopo il ’68 con la contestazione giovanile e sul modello di partito tra movimento e alternativa. Il libro si conclude con un testo sulla storia degli errori dei socialisti da Nenni a Craxi, che, al momento della scomparsa di Villetti, era ancora in fase di elaborazione, ma assai vicino alla stesura finale e che oggi possiamo leggere e apprezzare, grazie al lavoro, ma soprattutto all’affetto e alla vicinanza intellettuale di Roncaglia, che in un’infinità di volte ne ha discusso assieme all’Autore.
Dalle pagine dedicate agli ‘errori’ dei socialisti traspare l’amarezza per gli ultimi dolorosi, avventurosi anni del Psi. Gli ‘errori’ che Villetti porta in luce sono essenzialmente quelli riferibili alla lentezza con cui Nenni si staccò dalla politica frontista; quelli di Craxi che dopo l’89 mantenne in vita l’alleanza con la Dc anziché puntare a un’alleanza riformatrice con Psdi e Pci e infine quelli più recenti del dopo Tangentopoli dei socialisti spaccati tra una deriva identitaria e il desiderio di una vendetta politica sugli ex comunisti.
Ma perché desiderio di vendetta? Perché i voti del Psi dopo il ’94 finirono a Forza Italia assieme a una moltitudine di esponenti, anche di primo piano, nelle file di Berlusconi?
L’accanimento giudiziario nei confronti di Berlusconi (chi non ricorda l’avviso di garanzia a mezzo stampa recapitato all’allora Presidente del Consiglio durante un importante vertice internazionale a Napoli), ebbe un peso notevole nel convincere buona parte dell’elettorato socialista che in fin dei conti Berlusconi e Craxi stavano della stessa “parte della barricata”.
In questo modo le vittorie di Berlusconi contro i “comunisti” e la guerra aperta alle ‘toghe rosse’, per gli ex socialisti, soddisfacevano la sete di vendetta contro chi aveva distrutto il Psi e costretto Craxi alla fuga in Tunisia.
Ovviamente non è soltanto questo che spiega quanto avvenne in quegli anni soprattutto sul versante elettorale. Una parte dei quadri dirigenti del Psi, ad esempio, soprattutto in periferia e soprattutto al sud, avevano spesso delle caratteristiche clientelari. In alcuni casi lo spostamento di esponenti del ceto medio professionale a livello locale, di opinion leader, verso Berlusconi e Forza Italia trascinava con sé interi pezzi di elettorato del Partito Socialista.
In questa luce le vicende post Tangentopoli assumono i colori di un western all’italiana, una saga del Cavaliere che vendica il leader del Psi e i socialisti, dalla persecuzione giudiziaria manovrata dal Partito Comunista.
La lettura che veniva proposta invece dagli eredi del Partito Comunista, era che l’elettorato socialista era già di destra perché di destra era lo stesso Craxi e questo spiegava la trasmigrazione nelle file di Forza Italia.
Una ipotesi risibile, sottolinea l’A. perché Craxi era un uomo di sinistra a tutto tondo e di sinistra era anche il Partito Socialista. Quello che si imputava in realtà a Craxi e al Partito socialista, era l’omologazione con la socialdemocrazia europea. Basti pensare, ad esempio, che al congresso di Torino, a Craxi venne affibbiato come epiteto “il tedesco”, con un evidente e implicito riferimento politico alla socialdemocrazia tedesca, quella che da tempo, col congresso di Bad Godesberg nel ’59, aveva superato il marxismo.
«Quello che fu imputato a Craxi, e non solo da parte di Berlinguer e del PCI, ma anche da importanti leader dello stesso PSI, è stato di aver omologato i socialisti alla socialdemocrazia europea».
Berlinguer sosteneva la tesi della “mutazione genetica” avvenuta con la segreteria Craxi, che «con la sua spregiudicatezza avrebbe calpestato qualsiasi morale». È su queste basi che negli anni di tangentopoli venne costruita la teoria di un Craxi che avrebbe sostanzialmente anticipato la fondazione di Forza Italia e quindi lo stesso Craxi avrebbe anticipato l’avvento di Berlusconi!
Craxi poi con Berlusconi non aveva proprio niente in comune. Politicamente i suoi riferimenti erano Brandt, Mitterrand, Palme e in questa ottica si può certamente convenire che l’elettorato socialista era tanto di sinistra quanto anticomunista.
Sempre sulla scia del ragionamento della vendetta, si può presumere che lo spostamento massiccio di voti che avvenne nelle elezioni del 1994 dal Partito Socialista a Forza Italia, potrebbe derivare anche dalla discesa in campo di Berlusconi e non solo dal discredito provocato dagli arresti e dalle indagini di Mani Pulite.
Al contempo, nell’alleanza elettorale con gli ex comunisti i socialisti pagarono prezzi sempre più alti, dalle epurazioni delle liste del PSI nel ’94, all’accanimento di Veltroni che nel 2008 scelse l’apparentamento elettorale con Di Pietro piuttosto che consentire al PSI di Boselli di entrare in Parlamento. «Neppure Massimo D’Alema, noto per le sue scarse simpatie per i socialisti, era arrivato a perseguire una soluzione finale come quella predisposta da Veltroni».
E d’altra parte, aggiungiamo noi, la “geniale” strategia di Veltroni produsse una pesante sconfitta per il PD e per tutta la sinistra, e un’ulteriore spinta all’implosione, tutt’ora in corso, di un partito che non ha mai avuto un’anima.
Alla ‘modernizzazione’ politica del movimento socialista corrispondeva un processo di sclerotizzazione di quello comunista, incapace di proporsi per il governo del Paese e infine costretto da Berlinguer nel vicolo cieco del ‘compromesso storico’ e nella sterile ridotta della ‘diversità’ morale. D’altra parte basti ricordare che successivamente agli anni di Tangentopoli, nonostante la caduta del muro di Berlino e l’evoluzione del PCI in PDS, DS, e poi in PD, gli ex comunisti non hanno mai voluto assumere i connotati del socialismo italiano. Casomai erano socialisti all’estero, o almeno tentavano di esserlo, ma in Italia rimanevano sempre in un’indefinita ‘terza via’.
Dall’altra parte l’esodo di larga parte dell’elettorato e dei quadri PSI verso Forza Italia non aveva nemmeno contribuito a ricostruire una politica socialista nello schieramento di centrodestra guidato da Forza Italia: «Né gli elettori né tantomeno gli ex dirigenti del PSI passati sotto l’ala di Berlusconi, hanno dato un tocco socialista a una formazione che resta di centro-destra».
Molto difficile, se non impossibile, si è rivelato il recupero di quei voti perché nei confronti del Partito Socialista era stata costruita una campagna diffamatoria e persecutoria. «Un dato infatti non deve sfuggire: ai socialisti, tutti, fu data una sorta di patente di infamia. Questo atteggiamento non fu riservato solo alla classe dirigente senza distinzione, ma si diffuse nella società italiana». «Si applicò da parte dell’ex PCI, senza che ci fosse neppure una direttiva dall’alto, l’atteggiamento che fu tenuto nel dopoguerra nei confronti degli ex fascisti con l’intenzione di riconvertire i reprobi e acquisire voti».
In questo atteggiamento non c’era solo una volontà di approfittare della debolezza dei socialisti, c’era anche una sorta di “autodifesa” da parte degli ex comunisti che si sentivano sconfitti dalla storia.
C’è ovviamente molto altro come il problema di un sistema politico che alla vigilia di Tangentopoli non poggiava più su solidi pilastri: «Il finanziamento illegale e irregolare alla politica e ai partiti, aveva provocato una degenerazione negli apparati dello Stato e nel mondo della finanza pubblica e privata. Questo stato di cose diventava sempre più un ostacolo alla modernizzazione del Paese». Aggiungiamo che questa degenerazione aveva interessato anche lo stesso apparato politico del Partito Socialista come quello degli altri partiti politici della cosiddetta Prima Repubblica.
Con grande onestà e chiarezza l’autore scrive: «Uno dei motivi per i quali il Partito Socialista è stato particolarmente vulnerabile all’azione della magistratura è stato che fenomeni di arricchimento personale, al quale erano estranei i principali dirigenti socialisti, erano assai diffusi in un sottobosco creatosi alla periferia Socialista».
Non solo persecuzione però, molti di questi accadimenti derivarono anche dall’errore che Craxi commise dopo il crollo del muro di Berlino. Il leader socialista invece di puntare subito a una federazione tra PSI, PSDI e PCI, preferì mantenere un’alleanza di governo con la Democrazia Cristiana e a riproporla nel ‘92. Una scelta dettata dalla convinzione che prima fosse necessario un riequilibrio delle forze tra PSI e PCI. Il timore era che il Partito socialista con un’alleanza troppo frettolosa potesse finire per essere assorbito dal più forte, in termini organizzativi ed elettorali, ex Partito Comunista.
Nel congresso di Bari nell’estate del 1991, Craxi confermò l’alleanza con la Democrazia Cristiana. Nelle elezioni successive del 1992 i socialisti ebbero anche un discreto risultato con il centro-sinistra che complessivamente superò il 50% dei consensi mentre l’ex Partito Comunista, divenuto nel frattempo PDS, conobbe il suo minimo storico.
La linea di Craxi venne però sconfitta politicamente con le elezioni del Capo dello Stato quando il candidato preferito da Craxi, Arnaldo Forlani, dovette lasciare il passo a Oscar Scalfaro e fu proprio Scalfaro che successivamente sbarrò la strada a Craxi per la guida del governo e ancora che bloccò qualunque soluzione politica di Tangentopoli all’inizio del 1993 provocando la caduta del governo Amato.
Secondo Villetti, Craxi temeva anche che una rottura con la Democrazia Cristiana avrebbe portato il fronte della sinistra riformista in una condizione di eterna opposizione di governo. A parere di chi scrive, in base a ricordi personali, pesò anche sulla scelta di Craxi quella che allora nel partito veniva chiamata ‘l’ala ministerialista’, poco propensa ad abbandonare con l’alleanza con la DC anche i posti di governo e di sottogoverno. «Fu un istinto conservatore – scrive Villetti – che spinse Craxi alla prudenza», ma anche, a nostro parere, il peso di una malattia che si stava aggravando. Comunque un’indecisione, una titubanza, che gli fu politicamente fatale.
Alla fine tra identitari e vendicatori, il lungo cammino sembra interrotto, disperso, ma chiunque volesse riprendere in mano il bandolo della matassa non potrebbe che ripartire anche dalle riflessioni di Roberto Villetti.
La strategia delle riforme
il Mulino, pagg.211, euro 20,00