Dalle prime tensioni tra Enrico Letta e i capicorrente del Nazareno è già evidente che il cambio del segretario non basta a ridare una linea, un ruolo e – quindi – una prospettiva al PD. Come ha subito ammesso lo stesso successore di Zingaretti, i Dem più che di un nuovo segretario, avrebbero bisogno di «un nuovo partito». Sono parole che fanno il paio con l’incredibile j’accuse pronunciato da Zingaretti il 5 marzo scorso. Quel «mi vergogno del partito di cui sono segretario», che ha fatto il giro di mezza Europa.
La realtà è che il Partito Democratico, fondato da Veltroni nel 2007, non è mai nato, e adesso non sembra nemmeno più gestibile, visto che è “ostaggio” dei capicorrente. Sono loro che comandano e si fanno continuamente la guerra per spartirsi tutto il possibile. Esattamente come aveva confessato pubblicamente Zingaretti per motivare le dimissioni: «Nel mio partito si parla solo di poltrone… mentre il Paese è in piena emergenza…».
Non avendo in quasi 15 anni di vita fatto nulla per costruire una vera identità e un serio progetto politico, il PD appare oggi solo come una macchina di potere, una fabbrica di poltrone, dove quello che interessa ai capicorrente sono i posti di governo e di sottogoverno.
Tanti, troppi, vista la consistenza elettorale di un partito che continua a oscillare attorno al 20 per cento. Nel frattempo ha perduto anche l’antico insediamento sociale e territoriale ereditato dall’Ulivo e dai partiti che confluirono in quell’alleanza. Ma l’Ulivo fu archiviato da Veltroni per far nascere una formazione senza anima e – quindi – senza la capacità di costruire una prospettiva.
Con le ultime elezioni politiche, e poi con le europee, il PD sembrava definitivamente condannato a un ruolo marginale. E così, per uscire dall’angolo, dopo la caduta del governo gialloverde, non ha trovato nulla di meglio che puntare sull’alleanza con Cinquestelle. Un’alleanza che inizialmente il segretario Zingaretti nemmeno voleva, ma che poi ha accettato per ridare, come ha spiegato, “centralità” al suo partito. Che infatti è tornato al governo assecondando così la fame di poltrone dei capicorrente. È finita con il sostegno a oltranza al governo Conte e alla maggioranza giallorossa durante tutta la crisi politica, improvvisamente chiusa da Mattarella con la nomina di Draghi a Palazzo Chigi.
E adesso? Adesso il nuovo segretario cerca di ritrovare qualche bandiera identitaria, ma conferma anche l’alleanza con il Movimento fondato da Grillo. E perciò incontra Conte (nuovo “capo politico” nominato dal fondatore) per costruire un “asse privilegiato” con il M5S in vista delle prossime elezioni amministrative.
Ma c’è la “grana” di Roma, dove la sindaca Cinquestelle Virginia Raggi è ancora in pista per un secondo mandato, e il Pd non sa come risolvere questo grande rompicapo.
Raggi è inaccettabile, ma il PD di Zingaretti, dopo aver negato l’appoggio a Calenda non ha mai indetto le primarie per indicare un suo candidato. Intanto Enrico Letta, appena diventato segretario, ha archiviato pure l’ipotesi Gualtieri, l’ex ministro dell’Economia del governo giallorosso, che si considerava già in pista per il Campidoglio.
A questo punto, uscire dal pasticcio diventa complicato, molto complicato. Ma il problema è che quella di Roma si presenta già come una partita rischiosissima per il Partito Democratico. Una partita dove non è in gioco la vittoria del campionato, ma la retrocessione in serie B.