Come tutte le capitali dell’Unione europea, Lisbona a Pasqua si presentava come una città fantasma, chiusa per Covid e sotto controllo stretto delle forze dell’ordine impegnate a far rispettare il lockdown.
Ma qui i segni della crisi economica arrivata con la pandemia sono più evidenti e riportano alla luce tutta la fragilità della capitale di un paese povero messo in ginocchio dalla caduta dell’immobiliare e del turismo. I due settori su cui aveva puntato per uscire dalla miseria.
Per un po’ ha funzionato: dal 2014, anno in cui il paese era uscito dal programma di salvataggio della troika, fino all’arrivo del Coronavirus. Cinque-sei anni in cui il Portogallo, che solo dieci anni fa era sull’orlo del fallimento, veniva indicato da Bruxelles come un caso virtuoso, un esempio da imitare. Debito pubblico sotto rigido controllo e Pil in rapida e continua crescita. Boom del turismo, cantieri edili dappertutto e prezzi delle case con incrementi a doppia cifra.
Un sogno, un miracolo economico che Lisbona rappresentava perfettamente, con l’invasione dei marchi del lusso, le grandi mostre, gli eventi internazionali, i grattacieli firmati dalle star dell’architettura. Al punto da essere considerata per due anni la capitale del turismo europeo.
Poi è arrivato il Coronavirus e il sogno è svanito: voli azzerati, alberghi vuoti, boom della disoccupazione. Gli antichi quartieri del centro storico come Alfama, che intanto avevano espulso i residenti, hanno visto fermarsi le ristrutturazioni e sono diventati quartieri fantasma.
Fino a due anni fa simbolo del boom portoghese, adesso Lisbona è lo specchio della crisi d’un paese chiamato a fare i conti con la sua fragilità. Secondo gli ultimi dati, tra il 2019 e il 2020, la disoccupazione è aumentata del 32 per cento. Ma la situazione reale è peggiore, perché non vengono considerati i precari, le decine di migliaia di lavoratori “invisibili” che non riescono ad accedere nemmeno agli aiuti pubblici previsti per chi ha perduto il reddito a causa del Covid.
La sanità pubblica è al collasso e mancano migliaia di medici e infermieri. Con le scuole chiuse, si calcola che almeno un 30 per cento degli studenti non può fare lezione da casa, perché non ha il computer. È tutto così. E come sempre succede quando le cose vanno male in un Paese, all’improvviso in Portogallo è esploso un conflitto costituzionale tra capo dello Stato e premier che lascia presagire una crisi politica. A questo punto, non è detto che il segretario socialista Antonio Costa, che guida un governo di minoranza, riesca a evitare le elezioni anticipate e a concludere la legislatura.
È successo che il presidente della Repubblica Marcelo Rebelo de Sousa, ha promulgato tre leggi votate dai partiti d’opposizione che si sono coalizzati per aumentare gli aiuti statali alle famiglie in crisi. Il problema è che questo fa aumentare la spesa pubblica. E la Costituzione portoghese vieta esplicitamente al Parlamento di approvare leggi che comportino un aumento del Bilancio dello Stato in corso. In ogni caso, il capo dello Stato (il Portogallo è una repubblica semipresidenziale) non deve promulgare la legge. Invece Marcelo lo ha fatto, giustificandosi con l’emergenza economica in corso e con il fatto che il Bilancio dello Stato di quest’anno presenterebbe ancora dei margini per coprire spese impreviste.
Colto di sorpresa dalla mossa del Capo dello Stato (socialdemocratico) che ha appena fatto rieleggere non presentando un candidato socialista, il premier si è opposto. E così, dopo aver definito “creativa” la motivazione di Marcelo, Antonio Costa ha presentato ricorso alla Corte Costituzionale. Da cui adesso dipende il suo futuro. Perché è chiaro che se la Suprema Corte dovesse dargli torto, arrivare alla fine della legislatura con l’attuale governo di minoranza diventerebbe molto difficile.