Stadi vuoti, conti societari in profondo rosso, investimenti pari a zero, calciatori strapagati e viziati che in mezzo al campo trottano come brocchi qualsiasi, presidenti litigiosi, affamati di soldi e poco collaborativi, settori giovanili lasciati nelle mani di carneadi senza arte né parte, Dazn e Amazon che ci obbligheranno a vedere le partite sul minischermo di un telefonino: cari signori, il calcio sopravviverà al Coronavirus?
Tutto cambierà affinché nulla cambierà avrebbe sentenziato amaramente e solennemente il conte Tomasi di Lampedusa, magari sorseggiando un fresco passito delle sue amate terre siciliane.
Corsi e ricorsi storici gli avrebbe risposto il letterato napoletano Giovan Battista Vico che con altrettanta amarezza prima di tutti aveva capito come la storia, lo scorrere del tempo, il passare inesorabile degli anni non sia un moto lineare bensì circolare.
Un lungo e lento moto circolare mediante il quale dopo una grande ed inesorabile ascesa, è molto facile cadere e tornare, rapidamente, al punto di partenza.
Sì proprio come il gioco dell’oca o del monopoli quando, sfortunatamente, si capita sulla casella “tornare al via” che rende vano tutto il percorso fatto fino in quel momento e obbliga a ricominciare tutto daccapo.
Corsi e ricorsi storici appunto o, meglio, sportivi. Sì perché quando parliamo di calcio, il planetario fenomeno sportivo e sociale per eccellenza che coinvolge miliardi di appassionati, da oltre un anno sconvolto, snaturato, annacquato da quasi 500 giorni di pandemia, non sono sufficienti fini sociologi ed economisti freschi di Accademia ma dovrebbero scendere in campo, anche, storici e filosofi.
La domanda da porre, infatti, è ancora più secca e solenne perché non è se, ma in che modo, sopravviverà il calcio. Ad essere sinceri, nonostante sia molto giovane il Football nella sua breve esistenza (circa 140 anni se consideriamo le prime regole ufficiali del 1863) ha dimostrato una fortissima tempra, una grandissima capacità di adattarsi e di sopravvivere a tutte le latitudini, in tutti i contesti ed in tutte le situazioni, soprattutto quelle più tragiche.
Non dobbiamo scordarci, infatti, che in passato il calcio ha già superato ben due Guerre Mondiali (1915 e 1939) che, per milioni di vittime che hanno mietuto, ricordano molto da vicino la terribile ed improvvisa epidemia di Coronavirus che ha sconvolto il mondo.
Paradossalmente i due conflitti bellici però non provocarono la fine del calcio né un suo brusco rallentamento, semmai fecero da moltiplicatore, lo rafforzarono, lo resero più conosciuto, più popolare, quasi indispensabile. Indispensabile per far ritornare un sorriso e riunire un popolo (quello italiano) che, dopo il 1945, usciva anche dilaniato da una terribile guerra fratricida. La forza del calcio, la sua linfa vitale, fu proprio la sua anima popolare che, dalle campagne alla città, coinvolgeva tutti i ceti sociali, in particolare il mondo operaio e la neonata borghesia. Furono proprio queste le classi (mondo operaio e borghesia) che permisero al neonato football di svilupparsi, di diventare lo sport nazionale e di riempire gli stadi da Nord a Sud.
Un richiamo della foresta, una chiamata alle armi questa volta per difendere la bandiera ed i colori della propria squadra. Un richiamo che nella società 2.0 rischia di rimanere, desolatamente, inascoltato.
Una voce solitaria che predica in un deserto sempre più arido e che, nel corso degli anni, ha visto via via scomparire la vicinanza e la passione di quella piccola e media borghesia-imprenditoria, in particolare, che dai primi del Novecento ad oggi, è stata determinante ed indispensabile non solo come colonna portante della nostra economia ma anche come volano per la nascita, l’evoluzione e lo sviluppo di tutti gli sport importati D’Oltremanica (calcio, tennis, golf).
Senza far sconti, l’improvvisa e letale crisi economica pre pandemia e lo stesso Covid-19 hanno messo in ginocchio, soprattutto, queste due classi sociali che ora avvertono, sempre più, il peso del tempo, perché stentano a tenere il passo con i giganti delle multinazionali e con una tecnologia sempre più dilagante che ne ha stravolto e ridimensionato ruoli, funzioni, e modus operandi.
E così ancora un’altra volta, anche questa volta, sport e società si intrecceranno di nuovo, perché facce della stessa medaglia, e saranno coinvolte nello stesso processo sociale: un modello americano dei ricchi sempre più ricchi e dei poveri sempre più poveri con un superprofessionismo esasperato a cui fa da contraltare un dilettantismo della domenica squattrinato e senza futuro.
È molto chiaro, anche per il calcio tutte le strade condurrebbero in quest’unica direzione. Pochi mesi fa, infatti, in un’intervista esclusiva al New York Times il vulcanico e potentissimo presidente del Real Madrid, Florentino Perez, ha presentato urbi ed orbi la sua avveniristica proposta per il rilanciare il calcio europeo.
In altri tempi sarebbe stata definita folle, egoistica, visionaria, scandalosa: niente più Champions League, niente più Europa League, niente più campionati nazionali.
L’idea di Perez è quella di organizzare un campionato europeo con le migliori venti squadre dei cinque più importanti tornei del Vecchio Continente: Italia, Inghilterra, Spagna, Germania e Francia ed un secondo girone di altri 20 “top club” però di fascia inferiore. Chiaramente le promozioni e le retrocessioni sarebbero limitate a questi due soli campionati.
Una sorta di Nfl o Nba “made in Europe” che concentrerebbe tutti i grandi sponsor della Fifa, della Uefa, e delle stesse Federazioni nazionali diventando di fatto il campionato più importante e seguito del mondo. In base allo “schema Perez” l’Italia dovrebbe dare ai suddetti gironi ben otto squadre, chiaramente, ancora top secret.
E gli esclusi? Il Sassuolo dei miracoli, la divertentissima Atalanta, il sorprendente Verona, che fine faranno? Si ritornerà, forse, a 150 anni fa quando il calcio era appannaggio esclusivo dei ricchi, dei nobili, degli aristocratici e a quando il neonato Football era uno sport, solamente, per l’élite?
La risposta è nei fatti. Proprio poche ore fa la F.I.G.C. ha avuto parere favorevole dal governo Draghi per far disputare le partite del prossimo Europeo (rimandato di un anno a causa della pandemia) con almeno il 25% di presenze negli stadi italiani.
Ad occhio e croce saranno 25.000 i fortunati che potranno, per motivi di sicurezza, assistere alle partite degli Azzurri.
Guarda caso questa era proprio la stessa media percentuale degli spettatori che riempivano (si fa per dire) gli stadi prima del Covid-19. Una vera e propria inezia se si pensa ai pienoni domenicali da 70.000 spettatori di qualche anno fa.
Ma consoliamoci perché per i prossimi mondiali in Qatar nel 2022 sono previsti lussuosissimi stadi con capienza ridotta a 40.000 ingressi che nelle partite non propriamente di cartello avranno sugli spalti non più di 5.000 persone.
Una vera e propria desolazione. Inutile dire che le tribune nella stragrande maggioranza saranno prese d’assalto dai miliardari arabi che a tutti costi, in tutti i modi, e senza badare a spese, hanno voluto, per forza, portare il pallone nel giardino di casa loro come facevano i lord inglesi nell’Inghilterra vittoriana.
Corsi e ricorsi storici appunto, e, non ce ne voglia Gian Battista Vico ma ne avremmo fatto volentieri proprio a meno.