Il 9 maggio di 43 anni fa le Brigate Rosse uccidono Aldo Moro. C’è chi sostiene che ormai tutto è chiarito, scoperto; e chi si ostina a vedere zone d’ombra è un irriducibile pistaiolo…
Chissà. Che le Brigate Rosse fossero “rosse” e non sedicenti, non credo lo dubiti più nessuno. Che a 43 anni di distanza da quel delitto, tutto sia chiaro e chiarito, ci si permette di dubitarlo. Chi scrive nutre – perché negarlo? – qualche sospetto sull’operazione di via Fani; qualche sospetto sul covo di via Gradoli; qualche sospetto sul covo di via Montalcini; qualche sospetto sulle modalità ufficiali del ritrovamento del corpo di Moro a via Caetani; qualche sospetto sul covo milanese di via Monte Nevoso. Vale a dire sui cinque luoghi chiave della vicenda.
Qui ne basta uno. È accertato che Moro in quei 55 giorni di prigionia non ha scritto la quantità di lettere e documenti come vuole l’ufficiale verità: rannicchiato nella brandina, in quel “loculo” ricavato dietro la libreria dell’appartamento di via Montalcini. Accurate e disinteressate perizie calligrafiche documentano che ha scritto seduto su una sedia e appoggiato a un tavolo o una scrivania; perché mentire su quell’ininfluente particolare? Ecco, qualcuno dotato di spirito critico e scevro da retorica, può cominciare da qui, e farsi domande, cercare possibili risposte.
Francesco Damato su Il Dubbio, è colpito da affermazioni rese dal generale dei carabinieri Antonio Cornacchia a “Il Tempo” del 4 maggio scorso: «Al Viminale sapevano dov’era la prigione, l’aveva scoperto il generale Dalla Chiesa. Lui aveva allestito Unis, un contingente di 30 paracadutisti che aspettavano in via Aurelia, in attesa di avere l’ok per entrare in azione e liberare Moro». Che a quanto pare sapevano essere prigioniero nel covo di via Montalcini. Perché l’operazione non venne eseguita? si chiede Damato. «Fu un’attesa vana. Andreotti non diede mai via libera e cercò di occultare la documentazione relativa. Ma gli incartamenti sono stati trovati dal tribunale dei ministri nel 1996, solamente che il Senato non concesse l’autorizzazione a procedere». Mah! Non uno di quei 30 paracadutisti apre bocca? Tutto può essere.
A questo punto chi scrive si ricorda di un poderoso volume letto tanti anni fa, e lasciato “riposare” negli scaffali della libreria dedicata al terrorismo. Airone 1, il libro, editoriale Smetti; scritto dal generale Cornacchia con la collaborazione di Angelo Giannelli Benvenuti (2016). Un indice dei nomi faciliterebbe la ricerca; il libro come molti del suo genere, di questi tempi, ne è privo.
Ci sono già raccontate molte cose, in quel libro (da leggere sapendo leggere), comprese alcune che oggi colpiscono Damato. Come le sue notazioni relative ai 10 miliardi di lire che il 6 maggio del 1978 Cornacchia va a ritirare a Castel Gandolfo assieme all’ispettore generale dei cappellani delle carceri italiane don Cesare Curione e padre Enrico Zucca, dalle mani del segretario di papa Paolo VI, monsignor Pasquale Macchi, destinati a pagare il riscatto di Moro. «Ma alle 19,35», ha raccontato Cornacchia, «il segretario del Pontefice ricevette una telefonata che gli ha impedito, pallido in volto, di completare la consegna».
È lo stesso racconto, con quasi le stesse parole, che si può leggere nelle pagine 322-323 del libro. Anzi, nel libro si può leggere, attribuito a monsignor Macchi: «Tutto è andato a monte». E la riflessione: «Il dramma è che anche a Sua Santità viene preclusa la possibilità di liberare Moro».
Altro che sospetti, a questo punto. Gli interrogativi si affastellano. Il Vaticano, dunque ha messo a disposizione il denaro; c’è un crescente arco di forze politiche (socialisti, radicali, cattolici, perfino qualche comunista) che contesta il fronte della “fermezza” (più propriamente dell’immobilismo); il presidente della Repubblica Giovanni Leone, la penna in mano, pronto a firmare la grazia a una brigatista che non si è macchiata di reati di sangue. Amintore Fanfani, presidente del Senato e seconda carica dello Stato, autorevole esponente della Democrazia Cristiana: si accinge a fare un discorso al consiglio nazionale del suo partito in favore della “trattativa”. E c’è una “entità” più forte e potente, invisibile, che blocca tutto. Chi è questa entità, perché agisce e come agisce?
Occorre la pazienza e la sagacia di un lettore appassionato di polizieschi. Paolo VI è amico ed estimatore di Moro fin dai tempi giovanili, quelli della FUCI. Dal Moro prigioniero delle BR riceve una accorata lettera, sente impellente l’esigenza di fare qualcosa. Scrive la nota lettera in cui implora di lasciar libero il prigioniero, senza condizioni: che possa tornare ai suoi affetti, restituito alla sua famiglia. Ma “sente” che altro va fatto, deve fare. Manda monsignor Agostino Casaroli da Giulio Andreotti, il presidente del Consiglio. Il pontefice vuole che Andreotti conosca il testo della lettera prima che sia resa pubblica.
Non è azzardato pensare che Paolo VI abbia chiesto al presidente del Consiglio di fare a sua volta un passo coerente con quello che si accinge a fare il Vaticano. I termini del colloquio e della richiesta non sono noti, ma si possono facilmente dedurre dalla gelida risposta di Andreotti, questa sì conosciuta. Andreotti elenca con ragionieristico puntiglio le ragioni che impediscono allo Stato la trattativa, e il conseguente riconoscimento delle BR. Se Andreotti spiega le ragioni per cui non può e non vuole fare nulla, significa che qualcosa gli è stato chiesto di fare. A un certo punto della risposta di Andreotti si legge: «Il Santo Padre ha fatto per la liberazione di Moro più dell’immaginabile, con una forza e con una delicatezza che hanno riportato molti di noi agli anni felici dell’Azione cattolica universitaria».
“Delicatezza”. La chiave della risposta è questa parola; un cifrato messaggio decrittato con la sua consueta e riconosciuta acutezza da Leonardo Sciascia: finora il Papa è stato delicato più dell’immaginabile. Continui a esserlo. È andata come è andata.
Pochi, in quei giorni sanno e vogliono capire quello che accade, che si vuole accada. Pochi, e isolati, di fronte a un potere arrogante e “incontrollato”. E anche oggi: pochi coloro che comprendono, hanno voglia e capacità di farlo. Tanti non vogliono capire, come allora non si volle comprendere e provare un sentimento di pietà e di misericordia per un uomo, Moro, tradito, dato per pazzo dai suoi “amici”. Un modo utile e forse l’unico vero per ricordare quei tragici giorni e recuperare L’Affaire Moro di Sciascia (l’edizione possibilmente aggiornata, quella con allegata la relazione di minoranza dello stesso Sciascia alla prima commissione parlamentare d’inchiesta). Ci si immerge in una lettura dolente, e inquietante. Per ricavarne, parafrasando la nota poesia di Eugenio Montale, «ciò che non siamo, ciò che non vogliamo». Ma anche quello che sono stati, che hanno voluto; che ancora sono; che vogliono ancora.