Tacciono Salvini e Di Maio su Alitalia che – bloccata da Bruxelles – non riesce a pagare gli stipendi e questa estate – Europa permettendo – ripartirà ancora più piccola: 45 aerei e 4.500 dipendenti, contro i 52 e i 5.500 lavoratori previsti dal piano industriale di fine 2020.
Un disastro annunciato, non un fulmine a ciel sereno. E la responsabilità maggiore ricade su quella che tre anni fa era la coppia di comando del governo gialloverde. Ma adesso Salvini e Di Maio hanno perso la voce. Nemmeno una parola sulle loro responsabilità. Che ci sono e sono grandi. Perché nel 2018 furono loro due a bloccare la cessione alla Lufthansa. Senza quel “niet” adesso la compagnia aerea italiana sarebbe una sussidiaria del colosso tedesco, lo Stato non avrebbe buttato altri tre miliardi di danaro pubblico nel pozzo della compagnia di bandiera e la Commissione europea non bloccherebbe Ita, la nuova società pubblica che dovrebbe rilevare Alitalia.
Facciamo un passo indietro. All’inizio del 2018 l’accordo con il colosso aereo di Colonia sembrava cosa fatta. Un autorevole quotidiano economico tedesco aveva pubblicato i dettagli della bozza di contratto, sottoposta ai commissari liquidatori nominati dal governo di Roma. Ormai restava solo un nodo, quello dei tagli. I tedeschi prevedevano una ristrutturazione dell’azienda con 2.000 dipendenti in meno, mentre i negoziatori italiani chiedevano uno sconto. Si poteva chiudere con 1.500, ma a febbraio il governo decide improvvisamente di rinviare la firma. Alla vigilia del 4 marzo, il Pd non se la sente di regalare un argomento del genere alla campagna elettorale degli avversari.
Alle politiche del 4 marzo, Cinquestelle e Lega stravincono le elezioni e il Pd precipita al suo minimo storico. A questo punto la cessione dell’Alitalia, che secondo il bando di gara dovrebbe essere chiusa entro il 30 aprile, diventa tutta in salita. Le difficoltà vengono dall’ostilità di Salvini e Di Maio all’ipotesi Lufthansa e, comunque, alla vendita a un concorrente straniero. Anche se con sfumature diverse, i due, prima del voto, si erano già schierati per il ritorno del controllo pubblico.
E così i tedeschi si ritirano. L’amministratore delegato del colosso aereo, Carsten Sphor, mette subito le mani avanti: «Restiamo pronti all’acquisto, ma le recenti elezioni non hanno certo accelerato il necessario processo di ristrutturazione… Un processo senza il quale non abbiamo interesse ad entrare in Alitalia».
Con la nascita del governo gialloverde, la partita Alitalia finisce nelle mani di Luigi Di Maio, all’epoca capo politico di Cinquestelle, vicepremier e ministro per lo Sviluppo economico. Comincia così un’affannosa ricerca di partner privati da affiancare all’azionista pubblico. Ma i bandi di gara vanno tutti a vuoto. Nonostante il tentativo estremo di Di Maio di coinvolgere le Ferrovie dello Stato, per «far nascere la prima azienda ferro-gomma-aerei». Naturalmente «senza oneri per i contribuenti». E si è visto come è andata a finire…