Una raffica di riforme, una più importante dell’altra. Da fare in tempi brevissimi. È quanto ha comunicato Mario Draghi, appena completati i suoi primi cento giorni a Palazzo Chigi.
Il calendario, o meglio, il “cronoprogramma”, è stato già inviato a Bruxelles, che lo ha voluto a tempo di record, perché si tratta di un piano legato al Recovery Fund. Un legame talmente stretto da condizionare l’arrivo dei fondi europei.
Come ha spiegato la ministra Cartabia, quando ha presentato la sua proposta di riforma della giustizia in commissione parlamentare, bisogna far presto, perché «abbiamo scadenze imposte dal Recovery» e l’arrivo dei fondi europei «dipenderà» proprio dalla riforma della giustizia civile, di quella penale, del Csm e dell’ordinamento giudiziario.
Se le cose stanno così, si tratta di quella che in termini giuridici è una “clausola capestro”. O, se vogliamo, un modo per commissariare un Paese. Più o meno come Bruxelles faceva prima del Covid inviando la Troika, quando un paese membro non rispettava i vincoli di bilancio.
E se il meccanismo è identico anche per le altre riforme imposte dalla Commissione Europea: dal fisco alla concorrenza, dalle regole per gli appalti alla semplificazione burocratica, e via elencando, fino alla completa riscrittura delle regole su cui si fonda il nostro Paese, non c’è da stare allegri.
Si potrà obiettare che il meccanismo del Recovery Fund vale per tutti i Paesi dell’Ue e che l’Italia ha da tempo assoluto bisogno di riforme strutturali. Vero, ma il problema è che il Parlamento viene di fatto tagliato fuori, perché a questo punto, visti i tempi imposti da Bruxelles, Camera e Senato potranno solo votare le deleghe al governo per autorizzarlo a scrivere i testi delle singole riforme. Il che, con un presidente del Consiglio nominato e – quindi – senza alcuna legittimazione elettorale non è il massimo della democrazia.