Se ne va persino Walt Disney. Da decenni le multinazionali, soprattutto americane, sono in fuga dall’Italia. Negli ultimi anni i grandi gruppi internazionali hanno chiuso molti stabilimenti nella Penisola trasferendo le produzioni in Estremo oriente o in altri paesi europei. Le motivazioni sono molteplici: dalle paludi della burocrazia alle infrastrutture carenti.
L’elenco delle fughe è lungo nei vari settori industriali: petrolio, acciaio, alluminio, elettrodomestici. Ma ora, all’industria, si aggiunge anche il mondo fantastico della Disney. La catena Disney Store ha annunciato ai sindacati di voler smobiliare tutto: chiuderà tutti i 15 negozi che ha in Italia e saranno guai per i 230 dipendenti che rischieranno di restare disoccupati.
Mario Draghi ha invitato ad avere «fiducia», ad essere «ottimisti» sul futuro dell’Italia. Fortunatamente i morti e i contagi da Coronavirus calano e l’Italia riapre. Il presidente del Consiglio ha posto la sconfitta della pandemia come condizione per far ripartire gli investimenti, i consumi, il sistema produttivo, il lavoro. Ha predisposto un Piano nazionale di ripresa e di resilienza (Pnrr) basato sulla costruzione di grandi opere pubbliche, sulla riconversione verde dell’economia, sulle nuove tecnologie digitali, sulla sanità, sull’ambiente, sull’istruzione per ottenere circa 200 miliardi di risorse europee. Spinge sul pedale dell’ottimismo. A una domanda sulla fine dell’incubo mascherine ha delineato tempi brevi tra il serio e il faceto: «Ancora no, un paio di mesi…».
L’ottimismo di Draghi fa bene al morale, ma decisioni come quella della Disney Store arrivano come una mazzata. I grandi gruppi esteri da tempo smobilitano le loro attività in Italia. La Walt Disney è un caso particolarmente importante: è la multinazionale dello spettacolo che ha inventato Topolino, ha prodotto i primi film di cartoni animati facendo sognare con delle favole i bambini, e non solo quelli, di tutto il mondo. Non è facile accettare anche la fuga dei sogni.