Il 17 giugno 1983, all’alba, su ordine della Procura di Napoli, viene arrestato, con centinaia di altre persone, Enzo Tortora: l’operazione “Venerdì nero della Camorra”. Come è finita lo sanno tutti.
A trentotto anni da quell’orrore giudiziario, che ancora sanguina, quali gli antidoti, i contravveleni possibili? Uno è leggere: sfogliare un libro di Leonardo Sciascia, “Il contesto”, del 1976. Magari accompagnare la lettura dalla visione del film che Francesco Rosi ne ha ricavato, “Cadaveri eccellenti”.
Il passaggio che oggi merita (nel film è ripreso con fedeltà e rigore), è quello che vede opposti il commissario Rogas al presidente della Corte Suprema, il giudice Riches. I due parlano della giustizia, di come viene amministrata. Il giudice Riches dice:
«…Prendiamo la messa: il mistero della transustanziazione, il pane e il vino che diventano corpo, sangue e anima di Cristo. Il sacerdote può anche essere indegno, nella sua vita, nei suoi pensieri: ma il fatto che è stato investito dell’ordine, fa sì che ad ogni celebrazione il mistero si compia. Mai, dico mai, può accadere che la transustanziazione non avvenga. E così è un giudice quando celebra la legge: la giustizia non può non disvelarsi, non transustanziarsi, non compiersi. Prima il giudice può arrovellarsi, macerarsi, dire a se stesso: non sei degno, sei pieno di miseria, greve di istinti, torbido di pensieri, soggetto a ogni debolezza e a ogni errore; ma nel momento in cui celebra, non più. E tanto meno dopo».
Timidamente il commissario obietta: «E i gradi di giudizio, la possibilità dei ricorsi, degli appelli…».
Riches non ammette obiezioni: «Postulano, lei vuole dire, la possibilità dell’errore…ma non è così. Postulano soltanto l’esistenza di un’opinione diciamo laica sulla giustizia, sull’amministrazione della giustizia. Un’opinione che sta al di fuori. Ora quando una religione comincia a tener conto dell’opinione laica, è ben morta, anche se non sa di esserlo. E così è la giustizia, l’amministrazione della giustizia…; e infine la causa dello sfacelo, o del principio dello sfacelo è da attribuire agli illuministi francesi e in particolare al Traité sur la tolérance à l’occasion de la mort de Jean Calas di Voltaire: è stato il punto di partenza dell’errore: dell’errore che potesse esistere il cosiddetto errore giudiziario…Naturalmente, questo errore non sorge dal nulla né resta così, isolato o quanto meno isolabile: ha tutto un humus, tutto un contesto…il punto debole del trattato di Voltaire, il punto da cui io parto per rimettere le cose in sesto, si trova proprio nella prima pagina: quando pone la differenza tra la morte in guerra e la morte, diciamo, per giustizia. Questa
differenza non esiste: la giustizia siede su un perenne stato di pericolo, su un perenne stato di guerra. C’era anche ai tempi di Voltaire, ma non si vedeva…Mi spingerò a un paradosso, che può anche essere una previsione: la sola forma possibile di giustizia, di amministrazione della giustizia, potrebbe essere, e sarà, quella che nella guerra militare si chiama decimazione. Il singolo risponde dell’umanità. E l’umanità risponde del singolo. Non ci potrà essere altro modo di amministrare la giustizia. Dico di più: non c’è mai stato. Ma ora viene il momento di teorizzarlo, di codificarlo…».
Ho letto molte volte questo dialogo. Sempre al volto del giudice, nel film incarnato in modo eccellente da Max Von Sydow, si sovrappone quello di un ex magistrato milanese, ancora oggi in auge, molto ascoltato; e immediata una terza suggestione: «Il giudice Selah Lively», della famosa poesia di Edgar Lee Masters. Quanti, e non solo a Napoli?
È un riflesso condizionato irrefrenabile, automatico, non razionale: perché molti altri, a ben riflettere, sono i volti di magistrati in carne ed ossa che dovrei associare a quello descritto da Sciascia (e da Masters). Non c’è nulla da fare: più tempo passa, e più sono convinto di vivere in un paese dove la magistratura mi fa paura. Altro che “male non fare, paura non avere”.