«Tu chiamale se vuoi emozioni»… Così avrebbe commentato il grande Lucio Battisti al termine del combattutissimo ottavo di finale tra Italia ed Austria vinto di misura (2-1) dagli Azzurri nei tempi supplementari.
Una vittoria sofferta, con il cuore, all’italiana per intenderci, combattendo, soffrendo e con quel pizzico di fortuna in più che non guasta mai. In tutta sincerità, e per fortuna delle nostre coronarie, ci eravamo disabituati. Eh sì, dobbiamo ammetterlo, questa volta il tempio del calcio è stato clemente e benevolo con l’Italia di Mancini e Vialli.
Chissà se prima della partita i due campionissimi entrando insieme, per la prima volta dopo tanti anni, nello stadio di Wembley avranno ripensato a quella sfortunatissima finale di Coppa dei Campioni (20 maggio 1992) in cui la “Sampdoria dei miracoli” perse, proprio, nei tempi supplementari contro il Barcellona di Johan Cruijff. Una terrificante ed angolatissima punizione di Ronald Koeman, al minuto 112, mise fine al sogno dei blucerchiati che fino ad allora avevano dominato la partita.
Lo stesso Vialli, al termine delle ostilità, commentò con delusione mista ad ironia, nel suo perfetto stile british: «Dovrebbero esporre i miei scarpini al museo del Barcellona per le occasioni che ho fallito».
La “Coppa dalle grandi orecchie” sarebbe stata per quella Samp la classica ciliegina sulla torta, l’apoteosi massima di una epopea magica, straordinaria e per certi versi irripetibile che portò a Genova, sponda doriana, uno storico scudetto, tre Coppa Italia, una Coppa delle Coppe, una Supercoppa europea, e tutto in poco più di dieci anni.
Il segreto di quella Sampdoria? Semplice ma non per tutti. Un presidente galantuomo ed illuminato come Paolo Mantovani, un allenatore geniale, all’avanguardia, con la battuta sempre pronta come Vujadin Boskov, e soprattutto un gruppo di uomini veri, di professionisti seri e volenterosi che, in un mondo falso ed altamente competitivo come il calcio, seppero essere amici prima che colleghi di lavoro.
Un’amicizia, quasi fraterna, nata sui campi d’erba di Bogliasco, rimasta intatta e fortificata nel tempo ed arrivata, oltre due anni fa, come un uragano di entusiasmo e positività fino al Centro federale di Coverciano. Allora c’era da risollevare una squadra umiliata, nel corpo e nello spirito, dalla mancata qualificazione mondiale contro la Svezia e che faticava ad imporre un’identità o più semplicemente un’organizzazione di gioco. Per punirci la multinazionale Puma, nostro sponsor tecnico, ci privò addirittura della maglia azzurra facendoci giocare con un’improbabile casacca verde, colore che un tempo la F.I.G.C. riservava al solo settore giovanile.
A questo punto, verrebbe da dire che dopo ben 27 vittorie in 36 partite nel nuovo corso targato Mancini, non sarebbe allora neanche troppo blasfemo tracciare sulla nostra amata maglia azzurra una striscia orizzontale bianca con all’interno i colori blu, nero e rosso.
E sì, proprio come quella che, fin dal 1914, faceva bella mostra sui petti dei giocatori sampdoriani dopo la fusione tra Andrea Doria e Sampierdarenese.
Perché, e non ce ne vogliano le altre società italiane, questa Nazionale ha il blucerchiato nel Dna.
I nomi parlano chiaro. Lo staff del nostro C.T., ad esclusione del solo Lele Oriali, è composto da tutti ex doriani: Gianluca Vialli in primis, e poi Attilio Lombardo, Fausto Salsano, Alberico Evani. Lo stesso preparatore dei portieri Massimo Battara è il figlio d’arte di quel Pietro che difese i pali della Sampdoria negli Anni Sessanta e che con i suoi rivoluzionari metodi di allenamento forgiò, per un decennio, i numero uno doriani, tra i quali ricordiamo Gianluca Pagliuca.
Allineata e schierata durante l’inno nazionale la “banda del Mancio” è uno straordinario messaggio di forza e di unità. Trasmette coraggio, soprattutto dà un segnale forte: siamo l’Italia. Che bello, poi, vederli ridere, scherzare, abbracciarsi felici dopo un gol come se fossero giovanotti di belle speranze pronti all’esordio in Serie A.
Poco importa se sono passati trenta anni, se non sono più in campo ma seduti su una panchina, se alla maglietta in lanetta pesante con i numeri 7, 8, 9 e 10 sulle spalle hanno sostituito un’elegantissima divisa, stile Mundial 1982, disegnata per l’occasione da Giorgio Armani.
Mancini e i suoi fedelissimi hanno, già, forgiato gli Azzurri a loro immagine e somiglianza: grinta, carattere, spirito di squadra. E un’imbattibilità che dura da ben 31 partite consecutive.
È vero contro gli austriaci abbiamo vinto ma non convinto, ma questo era forse anche prevedibile: un conto sono le partite del girone ben altro è la gara secca, quella da dentro o fuori. Adesso che lo scoglio austriaco è stato superato bisogna riorganizzare le idee.
Euro 2020 è un campionato nuovissimo, di ultima generazione, con tante ed importanti novità imposte dall’Uefa: primo campionato itinerante nella storia, primo campionato con l’utilizzo del Var, primo campionato in cui sono ammesse ben cinque sostituzioni per squadra.
Le insidie, le trappole, le sorprese sono dietro l’angolo. A cominciare dalle condizioni climatiche che cambiano, in modo radicale e sensibile, da paese a paese, e dalle problematiche logistiche che obbligano le squadre a lunghi e continui voli internazionali da Roma a Londra, da Londra a Monaco di Baviera, fino ad Amsterdam, Siviglia, Budapest e Baku.
La parola ritiro è stata sostituita da imbarco. E allora può anche succedere che si verifichi l’impensabile: che la Francia campione del mondo in carica e super favorita per la vittoria finale venga eliminata a sorpresa dalla Svizzera di mister Petkovic, che la tanto decantata Olanda di De Ligt e De Jong venga umiliata dalla Slovacchia del redivivo Schick, e che la Germania di Muller non vada oltre il pareggio contro gli ungheresi allenati dall’italiano Marco Rossi.
Ma torniamo a noi. Nei quarti di finale, questo venerdì, saremo attesi dai diavoli rossi del Belgio. Avversario peggiore non poteva capitarci. Lo strapotere fisico di Lukaku, le diaboliche geometrie di De Bruyne, l’estro e la classe cristallina di Hazard saranno un banco di prova durissimo per i nostri Azzurri.
Durissimo sì ma non impossibile. E allora non vorremmo sembrare troppo ingordi, troppo pretenziosi ma avremmo un’ultima richiesta da fare a mister Mancini. Dopo aver sognato, invocato e rivissuto “le notti magiche” durante le prime tre partite allo Stadio Olimpico vorremmo che si materializzasse un altro vecchio mito del calcio italiano: quello dei gemelli del gol.
E questa volta non ci riferiamo né alla pluricitata coppia Mancini-Vialli né alla mitica Graziani-Pulici che fece grande il Torino negli Anni Settanta, ma a due millennial dalla faccia pulita e con un tiro al fulmicotone: Federico Chiesa e Matteo Pessina. Entrambi classe 1997, protagonisti in campionato con Juventus ed Atalanta, ma al momento fuori dagli iniziali undici “titolarissimi”.
Nella gara contro gli austriaci hanno dato la svolta di cui avevamo bisogno, hanno dominato la scena come esperti senatori, e segnando due bellissimi gol ci hanno regalato la tanto sospirata qualificazione.
Sono loro il nostro futuro, la nostra arma in più, i nostri fratelli d’Italia…
E allora non se la prendano Roberto e Gianluca, per questa volta i gemelli del gol sono Federico e Matteo…
Forza Azzurri!!!