Autocrazia. Conte picchia duro contro Grillo: «Beppe ha fatto la sua scelta, essere il padre padrone della sua creatura». Il fondatore del M5S si giustifica: «Non sono un padre padrone, ma un papà con il cuore in mano». Per la prima volta si difende e non attacca.
La rottura tra i due a colpi di “vaffa…” ha conseguenze pesantissime sui pentastellati. Beppe Grillo certo non fa marcia indietro, ma adesso usa toni moderati. Immediatamente prima aveva utilizzato parole particolarmente pesanti, sferzanti per affondare la candidatura, da lui stesso lanciata a febbraio, di affidare la guida dei cinquestelle all’ex presidente del Consiglio. La stroncatura l’ha basata sia sul piano politico sia su quello organizzativo: «Non ha né visione politica, né capacità manageriale…né capacità di innovazione».
La possibile diarchia è affondata. O meglio, è naufragata la diarchia tra un capo formale (Conte) e uno effettivo (Grillo). L’”avvocato del popolo” ha rifiutato di fare, come ha accusato, il “prestanome”.
L’Elevato, come si definiva fino a poco tempo fa il garante pentastellato, è caduto dal piedistallo. Per anni è stato un leader carismatico, stile leninista. Bastava una sua parola e tutti i grillini si allineavano. Bastava una sua sfuriata dai connotati populisti e ingiuriosi per affondare gli avversari esterni: porre alla berlina Bersani, ridicolizzare Berlusconi, mettere alle corde Napolitano, insabbiare Renzi. Bastava un suo discorso in piazza o un post sul suo potente blog su Internet per incoronare capo del Movimento Di Maio, lodare lo sconosciuto Conte mai iscritto al M5S come il migliore presidente del Consiglio. Oppure gli bastava poco per dare il via libera a governi totalmente diversi: con la Lega, con il Pd, con Draghi facendo dimenticare il “mai alleanze”; uno dei dogmi abbattuti assieme a molti altri nei continui dietrofront.
Qualcosa è cambiato. L’Elevato non è più elevato, il padre padrone non è più tale, non è più intoccabile. C’è una spiegazione. Nei cinquestelle le grandi disfatte elettorali hanno preso il posto degli straordinari successi. La metà degli elettori sono rimasti delusi dal passaggio dall’opposizione anti sistema al governo con gli antichi nemici e hanno voltato le spalle al M5S. Un terzo dei parlamentari o hanno detto addio o sono stati espulsi. Ha sbattuto la porta perfino Davide Casaleggio, un tempo il numero due del Movimento.
Il comico genovese è intento a recuperare l’originaria impostazione populista e il professore di diritto privato è attento all’ancoraggio di governo. Gran parte dei grillini guarda con simpatia a Conte oggetto di grandi consensi nei sondaggi demoscopici. Molti, come l’ex reggente Crimi, potrebbero aderire a una sua possibile scissione (l’ex presidente del Consiglio non vuole tenere «nel cassetto» il suo progetto di rifondazione del M5S).
Quando la rottura sembrava ormai irreparabile, è arrivata una tregua. Grillo ha accolto quella che ha definito «una richiesta di mediazione» avanzata dai gruppi parlamentari. Un comitato di sette persone, presieduto da Crimi, rivedrà le regole (in testa lo statuto) alla base dei cinquestelle. Si vedrà se sarà possibile ricomporre l’unità andata in pezzi. Un accordo è nell’interesse di tutti. In ogni caso Grillo non è più un intoccabile.
La partita è complicata. C’è anche il problema del tetto dei due mandati da parlamentare che assilla molti senatori e deputati restii a lasciare lo scranno: sul sì al terzo mandato Grillo si mostra rigido e Conte duttile.
Lo scontro su chi comanda spappola ulteriormente il Movimento. La lotta a coltello è sugli organigrammi ma sulle risposte da dare ai problemi dell’Italia il silenzio è assordante.