Pubblichiamo un articolo sulla figura di Guglielmo Epifani morto lo scorso giugno a Roma. Epifani fu segretario della Cgil e del Pd. Dopo il crollo del Psi passò prima con i Ds, poi con il Pd e infine con Articolo 21 – Movimento dei Democratici e Progressisti. Il pezzo su Epifani è uscito sull’ultimo numero del mensile Mondoperaio.
Lo vidi nel Transatlantico della Camera nella primavera del 2013, subito dopo le elezioni politiche. Mi avvicinai e gli strinsi la mano: «Auguri, buon lavoro!». Mi rispose con un sorriso su un volto tirato. Usò poche parole: «Grazie, vediamo quello che succede!». Affrontava una nuova fase della sua vita: dal sindacato, dalla Cgil, era passato alla politica: era stato eletto deputato del Pd in un periodo particolarmente turbolento, la prima grande affermazione del populismo grillino con oltre il 25% dei voti nelle elezioni legislative di otto anni fa.
È morto a Roma il 7 giugno scorso, a 71 anni, per embolia polmonare. Era nato il 24 marzo 1950 sempre nella capitale. Era un mio coetaneo. Da ragazzi, negli anni ‘Settanta, ci frequentavamo. Eravamo in sintonia. Tutti e due socialisti: io giovane cronista del servizio sindacale all’ Avanti!; lui dal 1974 in Cgil, subito dopo la laurea in filosofia con una tesi su Anna Kuliscioff, la rivoluzionaria socialista poi moglie del riformista Filippo Turati.
Scrivere di Epifani e un po’ fare la storia della Cgil. La confederazione era retta da tre numeri magici per scegliere i dirigenti: il 63% erano comunisti, il 33% socialisti, il 4% della “terza componente” (prima dello Psiup, poi del Pdup, quindi di Dp). Epifani, “quadro di valore” (come si diceva allora), andò a lavorare in Cgil: prima si occupò di editoria sindacale, poi passò all’ufficio studi della confederazione con Giuliano Amato, quindi divenne segretario generale aggiunto dei lavoratori poligrafici e cartai.
Nella Cgil, sia nella sede nazionale di Corso d’Italia sia nella Camera del lavoro di Roma di via Buonarroti, si entrava in punta di piedi. Si respirava un’aria di religiosità laica in quelle stanze, uno dei pochissimi presidi dell’unità della sinistra. Mentre gli scontri esplodevano quasi senza soste tra Psi e Pci, nella confederazione predominava una grande collaborazione all’insegna di un sostanziale riformismo. Vigevano rigore e disciplina.
Agostino Marianetti, un coriaceo e umanissimo operaio socialista, corrente De Martino, aveva allevato nella Cgil una covata di giovani sindacalisti socialisti fuoriclasse: Epifani, Ottaviano Del Turco, Giuliano Cazzola, Fausto Vigevani, Cesare Calvelli, Mario Didò, Valeriano Giorgi, Nicoletta Rocchi, Massimo Bordini. C’è chi era più vicino all’autonomismo di Nenni e poi di Craxi e chi era della sinistra guidata da Lombardi, Signorile, Cicchitto e De Michelis (quest’ultimo nel 1980 passò con il segretario socialista). L’impostazione, però, era comune, all’insegna della progettualità e del pragmatismo: rinnovare i contratti di lavoro, migliorare le condizioni economiche e di vita dei lavoratori, governare i cambiamenti tecnologici nelle fabbriche e negli uffici.
Sandro Sabbatini e Giorgio Lauzi, i due responsabili del servizio sindacale dell’ Avanti! ed inventori del giornalismo sindacale in Italia assieme a Bruno Ugolini de l’Unità, avevano una impostazione di lavoro molto progettuale e mandavano il vostro allora giovane cronista a scrivere articoli sui contratti, le vertenze, gli scioperi, le assemblee e le manifestazioni sindacali.
Così frequentai molto Epifani. Indimenticabili furono il 1984 e il 1985, quando il governo Craxi varò il patto antinflazione e la predeterminazione degli scatti della scala mobile per rilanciare l’economia e bloccare l’aumento esponenziale dei prezzi che tagliava il potere d’acquisto dei salari. Tutta la corrente socialista della Cgil firmò l’accordo per battere l’inflazione assieme alla Cisl e alla Uil ma Luciano Lama, disponibile all’intesa, alla fine si tirò indietro sotto le fortissime pressioni di Enrico Berlinguer: il segretario del Pci non voleva fare un “regalo” a Bettino Craxi. Il referendum di Berlinguer contro il decreto di San Valentino varato dal presidente del Consiglio socialista fu bocciato, l’inflazione fu sconfitta, ma l’unità della Cgil uscì a pezzi da quella battaglia.
La scissione, però, fu evitata. La collaborazione tra la “componente comunista” e la “componente socialista” (si chiamavano così le correnti nella Cgil) era forte e resse all’urto. C’era grande sintonia tra Marianetti, Del Turco, Epifani con grandi personaggi come Luciano Lama, Bruno Trentin, Sergio Cofferati, Sergio Garavini, Antonio Pizzinato. Anche se non mancavano i contrasti l’autonomia della confederazione dai partiti vinse. E non fu facile.
Nel 1992-1993 arrivò Tangentopoli, fu una mazzata mortale per il Psi: i socialisti furono politicamente sterminati e così Craxi. I dirigenti e i sindacalisti socialisti finirono annientati e dispersi. Fu la diaspora. Ci fu chi andò verso il Pds-Ds di Massimo D’Alema, chi fece rotta verso Forza Italia di Silvio Berlusconi, chi (pochissimi) restarono a puntellare la devastata casa socialista aiutando Enrico Boselli a mettere in piedi prima il Si (Socialisti italiani), poi lo Sdi (Socialisti democratici italiani) quindi a costruire il ritorno al Psi.
Epifani guardò verso i post comunisti. Alzò la bandiera dei diritti dei lavoratori e nella Cgil assieme a Cofferati nel marzo del 2002 portò 3 milioni di persone a manifestare al Circo Massimo a Roma in difesa dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori (introdotto nel 1970 dopo una durissima battaglia del socialista Giacomo Brodolini per tutelare i lavoratori dagli illegittimi licenziamenti) messo in discussione dal governo Berlusconi. Riscosse un grande successo. Alla fine del 2002 fu eletto segretario generale della Cgil al posto di Cofferati, che aveva lasciato la confederazione per passare alla politica. I giornali, allora (come anche oggi in occasione della morte), titolarono: «Un socialista segretario generale della Cgil». Non era mai accaduto prima: i segretari generali erano sempre stati comunisti, i socialisti invece erano “segretari generali aggiunti”, dei vice, insomma perché i rapporti di forza erano a tutto vantaggio del partito nato dalla scissione di Livorno nel 1921. Ma stranezza della sorte e oltraggio al vocabolario la parola “socialista” non compariva nel nome del Pds, né in quello dei Ds né, ora, in quello del Pd.
Il valore di Epifani fu riconosciuto anche nel Pd. Quando Pier Luigi Bersani nel 2013 si dimise da segretario subentrò per pochi mesi l’uomo arrivato dalla Cgil che poi lasciò il posto al “rottamatore” Matteo Renzi. Furono tanti i bocconi amari. L’uomo della diaspora socialista, il difensore al Circo Massimo dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori dall’attacco di Berlusconi, si trovò nel Partito democratico che votò a favore della sua abolizione quando il governo Renzi varò la riforma del mercato del lavoro. La storia di esodi e scissioni è infinita, come quella della sinistra. Epifani nel 2017 abbandonò il Pd e fondò con Bersani e D’Alema Articolo 21 – Movimento dei Democratici e Progressisti. Nel 2018 fu rieletto deputato alla Camera nelle liste di Leu, Liberi e uguali. Sia nel primo caso sia nel secondo, stranezza della sorte, manca il nome socialista. È il segno di una identità politica e culturale sbiadita, incerta. Leu veleggia appena attorno al 3% dei voti. Forse c’è una doppia zavorra che pesa: l’identità confusa e il programma incolore.