Bisogna ripensare completamente il futuro della salute in Italia: con più di 3mila nuovi contagi al giorno e la variante Delta capace di bucare la copertura del vaccino si ricomincia ad avere paura del Covid-19. Il vaccino certo allontana l’incubo di un nuovo affollamento delle terapie intensive, poiché seppur non completamente immune da infezione, la popolazione vaccinata sembra non contrarre forme gravi.
Ma mentre le migliori forze del Paese elaborano progetti che cambierebbero il volto del nostro Sistema Salute – aventi come focus innovazione; equità̀ di accesso alle cure; sinergie tra università, settore pubblico e privato; modernizzazione delle strutture e formazione degli operatori; migliore prevenzione e assistenza sul territorio; maggiore integrazione fra servizi sanitari e sociali – qualcosa continua a incepparsi.
Abbiamo incontrato il presidente di Cittadinanzattiva Antonio Gaudioso nell’ambito di Agorà, appuntamento promosso da Novartis e Culture nell’ottica del progetto sociale e partecipativo La salute in movimento che si è svolto negli scorsi giorni al MAXXI. Con lui abbiamo parlato di telemedicina (ovvero l’insieme di tecniche mediche ed informatiche che permettono la cura e l’assistenza sanitaria a distanza) che dovrebbe essere il perno del cambiamento e che invece fa ancora fatica a prendere il via.
Dottor Gaudioso, a cosa è dovuta questa resistenza?
Di telemedicina si parla da almeno 20 anni eppure è ancora assente dall’orizzonte quotidiano dei cittadini. La sua implementazione nel nostro Paese è la cartina tornasole di un modello operativo sbagliato, che consente tempi insostenibili tra le decisioni a livello istituzionale e le applicazioni pratiche di quanto deciso. Purtroppo questo avviene con molte scelte nell’ambito della digitalizzazione.
Però la banca dati sui vaccini anti Covid è operativa…
Sì, ed è stata vista come una straordinaria innovazione quando non sono operative banche dati regionali che diano dati certi sulle vaccinazioni obbligatorie. Ci sono delle cose che funzionano ma ancora troppe sono quelle su cui bisogna intervenire, soprattutto a livello burocratico-amministrativo.
Ad esempio?
Uno dei motivi per cui la telemedicina non è mai stata del tutto implementata in Italia è che non si è mai trovato l’accordo sulla definizione delle prestazioni, ovvero sui loro codici di rimborso e su come queste prestazioni erogate con le tecnologie fossero comparabili con prestazioni “ordinarie”, fatte dai professionisti in presenza. Bisogna intervenire per sciogliere questi nodi: nel corso della pandemia abbiamo visto quanto le tecnologie possono aiutare le persone, anche per quanto riguarda l’umanizzazione delle prestazioni sanitarie, perché permettono ai pazienti di curarsi a casa evitando loro spostamenti che spesso implicano veri e propri viaggi. Tale mancanza di adeguamento amministrativo è in realtà segno che si sta sottovalutando l’importanza delle nuove tecnologie in sanità. Se davvero ci si rendesse conto che si tratta di un tema importante e urgente i problemi sarebbero stati già risolti da anni.
Quali sono gli altri scogli che deve affrontare la digitalizzazione in ambito sanitario?
Per esempio la questione delle banche dati. Teoricamente i nostri dati dovrebbero essere raccolti e messi a disposizione del servizio sanitario sia a livello regionale che interregionale, grazie al fascicolo sanitario elettronico. Ebbene l’implementazione del fascicolo – competenza delle Regioni – non è ovunque avvenuta con successo. Ma anche se anche noi avessimo tutti i fascicoli sanitari elettronici compilati, ad oggi non sono interrogabili a livello interregionale. Se un cittadino si trova in un’altra Regione gli viene detto “si porti le lastre da casa”. Ora se questo le pare normale nel 2021…
Le tecnologie in nostro possesso permetterebbero di risolvere il problema?
Certo. Le Regioni che non consentono l’interrogabilità delle banche dati accampano spesso delle scuse di carattere tecnologico, ma secondo lei nel 2021 non esiste una tecnologia che permette di comunicare le banche date di soggetti diversi? Certo che c’è, ma non viene usata perché in molti casi non si ha voglia di condividere. Spesso se c’è poca voglia di condivisione vuol dire che c’è timore di essere “controllati”. Si vuole insomma evitare una valutazione dell’effettiva efficienza del sistema, delle liste di attesa e così via. Vede, se vengono fatte scelte pubbliche importanti, che permettono di governare il sistema, e si ha la forza di giustificarle io ritengo che non ci dovrebbe essere alcun problema del condividere dati, informazioni e motivazioni che portano a fare cose e a non farne altre. Ma evidentemente abbiamo ancora strada da fare in termini di trasparenza delle scelte pubbliche.