E due. Adesso che il procuratore capo di Milano è indagato dai Pm di Brescia, sono due gli ex del Pool Mani pulite messi sotto inchiesta dalla magistratura. Il primo è – appunto – Francesco Greco, che da numero uno della Procura milanese (a un passo dalla pensione) avrebbe frenato le indagini sulla presunta loggia massonica Ungheria di cui aveva parlato l’avvocato Pietro Amara durante gli interrogatori sul caso Eni-Nigeria. Il secondo è Piercamillo Davigo che, da consigliere del Csm, avrebbe violato il segreto d’ufficio per via della diffusione dei verbali di Amara finiti su due giornali.
Naturalmente l’apertura di un’indagine giudiziaria non può rappresentare di per sé un capo d’accusa, ma in questo caso assume certamente un valore simbolico, perché al Pool di Mani pulite si devono le inchieste su Tangentopoli e – di conseguenza – la caduta della Prima Repubblica, la cancellazione di un’intera classe politica, con la morte dei partiti che avevano governato l’Italia dall’avvento della democrazia succeduta al fascismo.
Mai, come nella prima metà degli anni Novanta, la magistratura aveva goduto di un consenso di massa come quello della squadra milanese guidata da Francesco Saverio Borrelli. E così, mentre giudici del Pool, con in testa Di Pietro, venivano visti dalla maggioranza degli italiani come gli eroi buoni che combattevano i politici ladri, il 30 aprile 1993 il segretario del Partito Socialista Bettino Craxi veniva accolto da un lancio di monetine all’uscita dell’hotel Raphael. Una umiliazione che segnava la fine del Psi e dei partiti della Prima Repubblica, il trionfo dell’antipolitica, l’inizio del populismo e dei partiti personali che ci ha portati all’attuale governo presieduto da un ex banchiere senza legittimazione elettorale.
Intanto la magistratura la faceva da padrona, continuando ad affermare in ogni occasione il suo potere sulla politica messa sotto scacco da una miriade di indagini giudiziarie, da raffiche di avvisi di garanzia che si intensificavano puntualmente alla vigilia di ogni tornata elettorale. Il tutto condito da pubblicazione di verbali, fughe pilotate di notizie, interviste, dichiarazioni, discese in campo a gamba tesa di Procuratori e Pubblici ministeri che debordavano allegramente dai propri limiti istituzionali. Ma non c’era nulla da fare. Il partito delle Procure, legittimato da Tangentopoli e dal consenso popolare, ha continuato per quasi 30 anni sulla strada imboccata da Mani Pulite.
Fino allo scandalo del Csm che, sotto la guida di Luca Palamara, contrattava con alcuni esponenti politici le nomine dei capi delle Procure che contano. Fino al caso dei verbali di Amara che hanno avvelenato la Procura di Milano e messo nei guai prima Davigo e poi Greco.
Con la stragrande maggioranza dei Pm milanesi che poi hanno firmato una lettera di sostegno al collega Storari che accusava Greco di aver frenato la sua indagine. Una vera e propria rivolta contro il Procuratore capo, che ha poi replicato con una lettera minacciosa: «Le tante menzogne, calunnie e diffamazioni sono e saranno attentamente denunciate in tutte le sedi competenti». Insomma, stracci. Come quelli che sono volati in occasione della riforma della Giustizia della ministra Cartabia imposta dal premier anche al Csm. Che alla fine si è dovuto piegare e accettarla, seppure a denti stretti, perché ormai – sondaggi alla mano – la fiducia degli italiani nella magistratura era scesa ai minimi termini.