Sulla spiaggia di Sabaudia il serpentone di ambulanti è continuo. In stragrande maggioranza sono immigrati. C’è chi declama i propri prodotti: «Giornali, giornali, giornali!». Oppure: «Vestiti belli, poco prezzo!». Oppure c’è il classico grido che sentivo da bambino a Ostia: «Cocco bello, cocco fresco, cocco rinfrescante…».
In pochi comprano qualcosa. Forse è la crisi, forse è il Covid. Alcuni comuni hanno anche vietato la spiaggia agli ambulanti. Si avvicina a passo di corsa alla sdraio il mio giornalaio: «Sono passato ieri e non ti ho trovato!». Volto grondante di sudore per il sole, il caldo torrido, il peso di due pacchi di quotidiani e riviste, Bashir mi rimprovera. Sono un cliente fisso e cerco di giustificarmi: «Stavo facendo il bagno…!». Bashir, mi sembra che si chiami così il mio giornalaio, è un lavoratore precario dalla pelle nera, viene da un paese dell’Africa, probabilmente sub sahariana. Come vanno le vendite di giornali? Scuote la testa: «Oggi poche! Si vende poco a metà settimana. Poi siamo a fine agosto. Ci sono meno persone, la gente torna a casa dal mare. Tra una settimana anche io vado a Roma, a Tor Pignattara». Saluta, ricambio: «Buon lavoro!».
Bashir si guadagna da vivere come giornalaio precario, che come tanti altri ambulanti popolano le spiagge italiane da tanti anni. Sono di tutti i tipi e di tutte le etnie del mondo. Ci sono i venditori di materassini e ciambelle africani, i commercianti di vestiti e di monili bengalesi. Gli italiani sono attestati sulle attività classiche da spiaggia, di quando io ero piccolo: vendono fettine di noci di cocco e frutta di tutti i tipi. Ma ho visto una novità del tutto inedita: il venditore di frutta ha un carrettino frigorifero, viaggia su dei cingoli anti sabbia e un altoparlante diffonde musica estiva.
I migliori clienti sono le donne: comprano parei, vestiti, anelli, bracciali. Ma anche i genitori con figli piccoli sono ottimi acquirenti: galleggianti di tutti i tipi, palloni, giocattoli.
Un napoletano dalla pelle scura gemello di un tunisino si avvicina all’ombrellone. Vende abbigliamento, è allegro: «Mi arrangio, lavoro. Faccio su e giù da Napoli a Sabaudia. Adesso c’è pure il Covid…Ma me la cavo. Ho moglie e due figli, faccio la giornata!». Non compro niente ma è contento lo stesso. Forse perché abbiamo parlato un po’ e ha avuto modo di aprirsi e sfogarsi.
C’è chi va al mare a riposarsi e divertirsi mentre altri ci vanno a lavorare duramente non solo a Sabaudia ma in tutte le spiagge italiane. 10 mila, 100 mila, forse di più. Nessuno è riuscito a fare un calcolo preciso sugli ambulanti delle spiagge. È un universo di precari. Fino al 2019, prima del Coronavirus, era meno dura. I giovani dell’animazione nei villaggi turistici, lavoravano e si divertivano. Fotografi, insegnanti di tennis, di vela, di sci d’acqua, d’immersione praticavano un lavoro che li rendeva autonomi dai genitori e gli dava delle prospettive future. La sera s’improvvisavano anche attori e si esibivano in spettacoli teatrali davanti al pubblico di villeggianti. Alcuni ragazzi erano entusiasti del loro lavoro precario: sognavano perfino un lavoro precario da vacanza perenne.
Adesso il bisogno, il disagio sociale già esistente per la crisi economica è salito ulteriormente con la pandemia. Sulla spiaggia ci sono precari neri e bianchi. Ma sono tutti uguali, come nella vita.