A poco più di sei mesi dal suo insediamento a Palazzo Chigi, Mario Draghi continua a navigare con il vento in poppa, centrando uno dopo l’altro i suoi obiettivi, con i partiti che contano sempre meno e ingoiano le decisioni del premier tecnico dopo aver piazzato qualche bandierina ideologica. Così è stato per il green pass imposto ai ristoratori, così è stato per Ita, la nuova compagnia di bandiera che sta per decollare con due terzi dei dipendenti della vecchia Alitalia. E via di questo passo.
Il dato di fatto è che il presidente del Consiglio va avanti come un panzer. Praticamente indisturbato. Anche perché alternative al momento non se vedono e lui gode di un consenso popolare che sfiora l’80 per cento. Senza aver mai concesso un’intervista e senza aver mai chiesto una diretta televisiva.
Il “metodo” Draghi è ormai chiaro: una dittatura morbida. Tecnico con visione politica e un approccio pragmatico, l’ex governatore della Bce cerca, quando serve, una soluzione di compromesso, ma avendo chiaro fin dall’inizio il punto di caduta. Esemplare la riforma della giustizia, che ha portato a casa dopo ore di colloqui conclusi con un secco: «Oltre questo non si può andare».
Chiamato da Mattarella a febbraio scorso alla guida del governo, per affrontare l’emergenza Covid e gestire i fondi in arrivo dall’Europa, Mario Draghi ha subito mostrato un pugno di ferro in un guanto di velluto. Due settimane dopo l’insediamento affronta il caos in cui versava il piano vaccinale liquidando il potente commissario per l’emergenza, Domenico Arcuri. Ma lo fa senza annunci e senza proclami.
Aspetta il primo marzo e non gli rinnova il mandato, rimpiazzandolo con uno sconosciuto generale degli alpini esperto in logistica. Figliuolo cambia tutto quello che aveva progettato Arcuri e affronta la sua missione come una operazione di guerra. Il piano di vaccinazione di massa è finalmente avviato. Resta però il problema delle Regioni che, grazie ai loro poteri nella Sanità, vanno avanti per proprio conto.
Durante la sua prima conferenza stampa da premier, rispondendo alla domanda di un giornalista, Draghi
sottolinea che le Regioni si muovono in ordine sparso, aggiungendo solo che così non va. Punto. Ma nelle settimane successive consente a Figliuolo di metterle silenziosamente in riga, nazionalizzando di fatto la campagna vaccinale.
Piano piano anche l’onnipotente Comitato tecnico scientifico per il Covid, che per un anno e mezzo ha gestito di fatto chiusure e aperture, perde la sua centralità, diventando un semplice organo consultivo. Qui la svolta non è silenziosa. Perché i big del Cts tuonano contro il piano di aperture fissato dal governo in vista dell’estate.
Allora Draghi è costretto a prendere pubblicamente posizione. Lo fa in modo sobrio, come al solito. Le riaperture, dice, rappresentano un «rischio calcolato…». E va avanti per la sua strada. Adesso l’estate sta finendo senza l’annunciato boom di contagi ipotizzato da tanti esperti. Intanto il premier si prepara alla prossima partita, forse quella più rischiosa di tutte: la riapertura delle scuole.