Brutta sorpresa per i talebani. Devono fare i conti con una protesta popolare per i diritti umani e per la libertà. In particolare scendono in piazza le donne afghane. Alla completa vittoria militare sugli Stati Uniti, la Nato e il governo afghano filo occidentale non è seguito un corale consenso politico all’Emirato islamico.
A Kabul, Herat e in altre città afghane da una settimana donne e giovani scendono in piazza. I soldati talebani sparano in aria, prendono a bastonate i giovani, spintonano le ragazze, imprigionano dei manifestanti. Manca un conteggio preciso dei morti.
Lorenzo Cremonesi ha raccontato sul Corriere della Sera la manifestazione di donne e giovani di martedì 7 settembre: «È accaduto tutto molto velocemente. Le proteste delle donne -ha precisato l’inviato a Kabul- diventano politiche, non sono più soltanto contestazioni contro l’oppressione del burqa, ma si mischiano alle manifestazioni per la libertà, la democrazia, i diritti degli individui». La mano dura non risparmia la stampa. I giornalisti vengono anche fermati, quelli afghani alle volte vengono pure picchiati.
Le proteste popolari hanno tante ragioni diverse. C’è la difesa di chi resiste ai talebani nella valle del Panshir e c’è l’attacco al Pakistan che sosterrebbe l’offensiva degli “studenti coranici” anche con l’aviazione. I ragazzi nelle strade di Kabul hanno gridato: «Morte al Pakistan. Giù le mani dal Panshir. Viva la resistenza dei valorosi contro la dittatura».
C’è la protesta contro la negazione e repressione dei diritti umani, delle minoranze, delle opposizioni, delle donne. In particolare le ragazze vogliono lavorare, vogliono studiare, vogliono uscire da sole senza accompagnatori maschi, non vogliono il burqa, vogliono la parità dei diritti civili con gli uomini. Hanno urlato: «Non siamo più le donne di tre decadi fa. Non staremo in silenzio. Vogliamo un Afghanistan diverso». Sulle donne arriva un ulteriore giro di vite: non potranno più giocare a cricket, né praticare ogni altro sport, perché potrebbero esporre «il loro viso o il loro corpo» non coperti.
Certo le proteste sono nelle città, non negli arretrati centri rurali. Nei venti anni di governo democratico tutelato dai soldati dei paesi occidentali sono cambiati i costumi nelle città, è stato assorbito l’amore per la libertà: da quella elettorale, alla possibilità di ascoltare la musica o di vestire secondo i propri gusti. In particolare sono mutati i costumi delle donne afghane, vogliono la parità dei diritti con gli uomini.
Il nuovo governo afghano non è “inclusivo”, come annunciato dagli “studenti coranici”, ma caratterizzato dal radicalismo islamico. È un governo teocratico. Il mullah Hibatullah Akhundzada ha annunciato l’applicazione della Sharia, la legge islamica. La guida suprema religiosa dei talebani ha sostenuto la tutela dei diritti umani, delle minoranze, dei gruppi meno abbienti ma «nell’ambito della sacra religione dell’Islam».
Il pugno di ferro, i kalashnikov, la paura della morte non hanno impedito le proteste. I talebani ne dovranno tenere conto. Non si governa solo con i fucili. Oltre 100.000 afghani sono riusciti a fuggire con il ponte aereo organizzato dagli americani e dai paesi occidentali, ma la maggioranza degli oppositori sono rimasti nel paese. Sono tra l’incudine dei talebani e il martello dei terroristi dell’Isis. L’11 settembre cadrà il ventesimo anniversario degli spaventosi attentati suicidi di al Qaeda contro gli Stati Uniti: in particolare furono distrutte le Torri Gemelle di New York con migliaia di morti. In occasione della ricorrenza c’è la paura di altri attentati terroristici, in America e in Afghanistan.