Audace, brava, bella. Margaret Bourke-White ha segnato la storia del fotogiornalismo. Ogni sua immagine colpisce come un pugno nello stomaco. Ha sfondato come donna fotoreporter quando questo mestiere era una prerogativa esclusivamente maschile. Nata nel 1904, morta nel 1971, in 67 anni di vita ha lasciato una traccia indelebile con le sue storie in immagini. Oltre 100 fotografie illustrano il suo lavoro in Prima, donna. Margaret Bourke-White, la mostra ospitata dal Museo di Roma in Trastevere dal 21 settembre al 27 febbraio 2022.
Margaret Bourke-White ha una storia simile e diversa da Vivian Mayer, un’altra grande fotografa americana che però, per vivere, faceva la bambinaia. Margaret Bourke-White è la pioniera dell’emancipazione della donna americana quando gli Stati Uniti fanno il grande salto storico di prima potenza del mondo. È capace di arrampicarsi sul rostro del tetto di un grattacielo per fotografare la potenza dell’esplosione urbana di una metropoli. Comincia nel 1928 a Cleveland nell’Ohio fotografando acciaierie e altoforni. Spicca il volo con Fortune e Life, due tra le più prestigiose riviste statunitensi. Le sue fotografie documentano prima la miseria e la fame di milioni di lavoratori americani e delle loro famiglie caduti nella morsa della Grande Depressione del 1929, poi la ripresa costruita dal presidente Franklin Delano Roosevelt.
Lavora negli Stati Uniti, poi va nell’impenetrabile Unione Sovietica: ritrae Stalin e gli sforzi dei piani quinquennali comunisti per costruire a marce forzate una grande industria pesante. Alla vigilia della Seconda guerra mondiale si sposta in Germania, in Austria, in Cecoslovacchia per documentare la minacciosa avanzata del nazismo.
È una inviata di guerra, in prima linea, su vari fronti. Va in Africa del nord. Risale con le truppe americane l’Italia fascista sconfitta: Napoli, Cassino, Roma. Con le armate del generale Patton va nella Germania hitleriana che si arrende agli Alleati. Fotografa gli orribili spettacoli degli internati nei campi di sterminio di Buchenwald.
Non si ferma. Parte per l’India quando il Regno Unito si accinge a lasciare la “perla” del suo Impero coloniale. Si muove tra i terribili scontri religiosi tra indù e musulmani che danno vita a India e Pakistan, due distinti paesi indipendenti quando gli inglesi lasciano l’immenso territorio. Nel 1948 intervista e fotografa Ghandi poco prima del suo assassinio.
Quindi si sposta in Corea, nel Sudafrica dell’Apartheid. Negli Stati Uniti immortala la frenesia del ritorno alla pace dei giovani americani e i gravi problemi del segregazionismo negli Stati del sud. Dal 1952 comincia a fare i conti con il Parkinson, una malattia sempre più invalidante. Infine arriva la morte. La mostra, precisa un comunicato stampa, è «una straordinaria retrospettiva per ricordare un’importante fotografa, una grande donna, la sua visione e la sua vita controcorrente».
L’esposizione, a cura di Alessandra Mauro, è promossa da Roma Culture, Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali ed è organizzata da Contrasto e Zètema Progetto Cultura, in collaborazione con Life Picture Collection, detentrice dell’archivio storico di Life. Catalogo edito da Contrasto.