La lezione delle ultime amministrative italiane è che i cambi delle fasi politiche dipendono dai mutamenti delle percezioni e dei bisogni. E, quindi, le elezioni si vincono o si perdono se si intercettano o meno le necessità di chi vota.
Al cappotto del centrodestra ha fortemente contribuito una campagna elettorale sbagliata. Dove i continui attacchi di Meloni e Salvini ai green pass e all’obbligo vaccinale non erano più in sintonia con il sentire della maggioranza degli italiani.
Come ha ammesso candidamente lo stesso Salvini il giorno dopo la sconfitta: «La verità è che il Covid ha cambiato tutto». Proprio così. In epoca di post-pandemia la gente vuole solo tornare il più rapidamente possibile alla normalità. Non a caso il premier tecnico (Mario Draghi) gode di una vasta fiducia e viene visto come uomo del fare. Quello che cerca di risolvere pragmaticamente i problemi del Paese in una fase così difficile e complessa.
A ben guardare, l’errore di calcolo del centrodestra è stato quindi quello di fidarsi troppo dei social e dei sondaggi, che servono per capire l’aria che tira al momento, ma non bastano per individuare i cambiamenti di fase, per scorgere in tempo le loro radici profonde.
Per carità, nulla di nuovo. È successo anche a grandi partiti e a leader carismatici. Basti pensare al Partito Comunista di Enrico Berlinguer, che non capì gli effetti della globalizzazione sul mondo del lavoro e si fece sorprendere dalla marcia dei quarantamila quadri Fiat.
Non aver intuito lo spirito del tempo, non aver intercettato i bisogni del popolo, è costato il potere perfino a uomini che hanno fatto la storia. Per esempio a Winston Churchill che nel 1945, perse le elezioni politiche e la poltrona di primo ministro inglese proprio per non aver capito che il suo paese stava cambiando.
Come ha dimostrato il regista inglese Ken Loach in un documentario (The Spirit of ‘45) in cui analizza la schiacciante vittoria della sinistra laburista nelle elezioni politiche postbelliche. Smentendo l’interpretazione corrente, le immagini e le interviste del film dimostrano che non fu il popolo britannico a rivelarsi ingrato nei confronti del vincitore della guerra. Ma fu Churchill che non percepì il cambiamento del popolo inglese, che, dopo l’enorme sforzo della guerra, voleva solo uscire dalle sue miserabili condizioni di vita.
E così molti lavoratori cominciarono a interessarsi a quello Stato sociale di cui parlava il Rapporto Beveridge. Scritto da un economista liberale, il libro aveva venduto migliaia di copie, ma Churchill non lo aveva nemmeno sfogliato.