Con i “franchi tiratori” non si scherza. La candidatura dell’uomo forte al Quirinale non è mai passata nella storia italiana. Nel segreto dell’urna, e anche prima dell’inizio delle votazioni, sono stati bocciati tanti nomi illustri della politica italiana: Fanfani, Moro, Nenni, Andreotti. Anche Forlani, certamente non una stella di prima grandezza, fu impallinato dai “franchi tiratori” al tramonto della Prima Repubblica. Eppure Forlani era il segretario della Dc, il più forte partito italiano.
Nella Seconda Repubblica, nella quale tutto era cambiato, restò però immutato l’assioma del no all’elezione di un uomo forte a capo dello Stato: Prodi e D’Alema tentarono invano di andare al Quirinale. Anzi Prodi fu clamorosamente silurato dai “traditori”, i famosi 101 “franchi tiratori”. Eppure l’inventore dell’Ulivo era stato candidato con una ovazione dai “grandi elettori” e sulla carta aveva i voti sufficienti per essere eletto da una maggioranza di centro-sinistra.
Rimase e resta forte in Parlamento l’opposizione alla candidatura di un uomo forte. Forse per la terribile esperienza della dittatura fascista si è sempre evitato di eleggere per 7 anni un presidente della Repubblica dalle caratteristiche politiche e dal temperamento troppo decisi. Oscar Luigi Scalfaro e Giorgio Napolitano sono stati due eccezioni che hanno confermato la regola: quando furono eletti al Quirinale non erano figure di primo piano della Dc e del Pds. Successivamente, però, assunsero un ruolo di forte protagonismo politico. Per molti avrebbero perfino oltrepassato i confini istituzionali delle competenze da presidente della Repubblica. Tuttavia si trovarono davanti alla eccezionalità di avvenimenti dirompenti come Tangentopoli (Scalfaro) e la crisi internazionale del debito sovrano scoppiata in modo drammatico in Italia (Napolitano). I giornali ribattezzarono Napolitano “re Giorgio” per sottolineare l’espansione dei suoi poteri. In questi due casi si può dire: l’”abito fa il monaco”.
A febbraio, invece, potrebbe diventare capo dello Stato un uomo forte in Italia e a livello internazionale: Mario Draghi, presidente del Consiglio, ex presidente della Bce (Banca centrale europea). Molti, sia nel centro-destra e sia nel centro-sinistra, si sono spinti a candidarlo al Quirinale con mesi di anticipo. Non era mai successo: nessun presidente del Consiglio in carica era mai stato candidato a capo dello Stato.
La distinzione tra le due figure istituzionali è netta: il presidente del Consiglio guida il governo ed è titolare del potere esecutivo mentre il capo dello Stato rappresenta l’unità nazionale ed è il garante della Costituzione. Eppure Giancarlo Giorgetti, vice segretario della Lega e ministro dello Sviluppo economico, non solo ha candidato Draghi al Quirinale ma addirittura ha ipotizzato per lui «un semipresidenzialismo de facto, in cui il presidente della Repubblica allarga le sue funzioni approfittando di una politica debole».
In molti ci credono. Ci crede Maria Serena Cappello, la moglie di Draghi, anche se non è molto entusiasta. Antonio Proietti, il barista che prepara aperitivi al presidente del Consiglio nella caffetteria accanto la casa di Draghi, ha svelato il segreto a “Un giorno da pecora”. Al programma di Rai Radio1 ha rivelato: Maria Serena Cappello «mi ha detto che sì, sicuramente suo marito farà il presidente della Repubblica. Me lo ha detto un po’ sconsolata, perché saranno molto impegnati».
Draghi, invece, non si pronuncia. Ai giornalisti che lo bersagliano di domande subito dopo il suo incontro a Parigi con Emmanuel Macron, si è limitato a dire: «Io al Quirinale? Guardi, le dico soltanto che non ho mai bevuto spritz all’Aperol, non mi piace proprio. L’ho sempre preso al Campari».
In sintesi: ogni ipotesi è possibile. Tuttavia non è così semplice l’elezione di Draghi a presidente della Repubblica. Soprattutto per due motivi: 1) si è impegnato con la commissione europea a realizzare il Pnrr (Piano nazionale di ripresa e di resilienza) al quale Bruxelles ha condizionato l’erogazione all’Italia di 200 miliardi di fondi; 2) se venisse eletto ci sarebbe una crisi di governo e, probabilmente, il voto politico anticipato. In questo caso la gran parte dei deputati e senatori, soprattutto iscritti o ex aderenti al M5S, non verrebbero rieletti. Di qui una larga e trasversale opposizione in Parlamento al passaggio di Draghi da Palazzo Chigi al Quirinale. I “franchi tiratori” non hanno smobilitato.