Precipitata centomila copie sotto Il Corriere della Sera, Repubblica va sempre peggio. Certo, data la crisi di cui soffre la carta stampata, tutte le testate continuano a perdere copie e lettori, ma quella fondata da Eugenio Scalfari a gennaio del 1974 sta andando letteralmente in picchiata. I dati Ads (Accertamento diffusione stampa) sono pesanti. Lo scorso settembre la testata ha diffuso appena 157.228 copie, tra cartacee e digitali: meno 14,41% rispetto alle 183.700 dello stesso mese dell’anno precedente.
Dalla serie storica della diffusione si scopre che il quotidiano si è mangiato in 15 anni la bellezza di 450 mila copie, passando dalle 626 mila del 2005 alle 183 mila del 2020. E adesso, ad aggravare la situazione c’è il fatto che lo smottamento editoriale della Gedi è addirittura peggiorato, dopo il passaggio della proprietà a John Elkann, che ha acquistato il gruppo nel 2020 dalla famiglia De Benedetti.
Con l’erede di Gianni Agnelli, invece dell’annunciato rilancio, sono arrivati tagli, cassa integrazione e prepensionamenti. Ben 54 a settembre scorso, con una comunicazione via mail in cui si spiegava all’interessato che se non accettava il prepensionamento se ne stava in cassa integrazione per un anno. Messaggio recapitato anche al vicedirettore Sergio Rizzo, che ha risposto con le dimissioni immediate accompagnate da parole molto dure indirizzate all’editore: «Un giornale non è una fabbrica d’auto». E al direttore Maurizio Molinari, arrivato un anno fa dalla Stampa di Torino, lo storico quotidiano della famiglia Agnelli.
E siamo al punto già sollevato dopo altri addii blasonati, da Lerner a Saviano, da Rampini a Curzio Maltese. Dietro la crisi di Repubblica c’è lo snaturamento del quotidiano fondato quasi 48 anni fa da Eugenio Scalfari. Dai cambi d’organigramma, ai contenuti, dai commenti alla linea politica spostata sempre di più dalla sinistra verso il centro.
Cambiamenti profondi che i lettori hanno subito punito. Ma la stessa cosa era successa cinque anni fa, quando Marco De Benedetti aveva assunto la presidenza del gruppo editoriale Gedi. Contemporaneamente Repubblica accelerava la perdita di lettori e di copie. Né all’inizio del 2019 ad arrestarlo servì l’arrivo di Carlo Verdelli. Nuovo direttore dopo il brutale licenziamento di Mario Calabresi, che due anni prima aveva preso il posto di Ezio Mauro, direttore per 20 anni a partire dal 1996 al posto del fondatore.
A ben guardare, non poteva essere altrimenti. Perché il quotidiano aveva una sua identità molto precisa, che non poteva essere stravolta senza conseguenze. Nato come giornale-partito, aveva cercato, e trovato, il suo spazio di mercato a sinistra: nell’area di matrice socialista – prima – e comunista poi. Fu un successo determinato anche dalla novità del formato, dalla grafica e dai commenti spregiudicati. Un successo che a un certo punto garantì il sorpasso del Corriere e il primato delle vendite. La redazione iniziale, fatta prevalentemente di giovani alle prime armi, fu poi determinante per creare un forte legame identitario con i lettori.
Qualche anno fa, in uno dei tanti anniversari del giornale, Scalfari, abbandonato il tono celebrativo e auto-celebrativo, spiegò semplicemente in cosa consisteva lo “spirito” di Repubblica. Certo, molte cose erano cambiate dal 1974. A cominciare dal prosciugamento del bacino della sinistra progressista. Questo il fondatore non lo sottovalutava, ma la memoria di famiglia – aggiungeva – «rappresenta un patrimonio che non va azzerato». E concludeva: «Questa è la nostra natura. Se venisse cambiata, Repubblica smetterebbe semplicemente di esistere». Lette adesso, più di 15 anni dopo, le parole sembrano profetiche.