Letta, Conte, Salvini e Meloni stanno cercando di dare le carte buone per il Quirinale, ma sul voto del Parlamento aleggia, minaccioso, il fantasma del 1992. L’anno in cui il segretario Dc Arnaldo Forlani, il candidato che avrebbe dovuto salire al Colle con i voti del pentapartito, cadde in aula sotto il fuoco incrociato di 70 “franchi tiratori”.
Fu la definitiva condanna a morte della Prima Repubblica. L’ultimo atto di un ciclo iniziato tre mesi prima, con l’arresto di Mario Chiesa e la nascita di Tangentopoli. Un ciclo che poi si sarebbe consolidato velocemente con le spettacolari indagini e le centinaia di carcerazioni preventive ordinate dal Pool giudiziario di Mani Pulite.
La delegittimazione di un’intera classe politica al potere dal dopoguerra e la crescente sfiducia degli italiani in un sistema partitocratico corrotto erano evidenti, ma Craxi, Andreotti e i leader non percepirono la gravità della situazione e furono colti di sorpresa dall’esito della conta per il Quirinale.
Il 15 maggio 1992, dopo che la maggioranza di pentapartito aveva dato via libera alla candidatura di un democristiano, i grandi elettori Dc avevano votato a scrutinio segreto indicando il loro segretario. Ma la mattina dopo, il “quasi presidente” Forlani fu impallinato da 70 “franchi tiratori” e per 39 voti perse il Quirinale.
La strage di Capaci e la morte del giudice Falcone costrinsero i segretari a chiudere la partita del Colle nella maniera peggiore. Accettando l’indicazione di un politico fuori dal Sistema (Pannella) a favore di un candidato democristiano outsider: Oscar Luigi Scalfaro. La scossa fece crollare definitivamente un sistema politico delegittimato e ormai privo di fondamenta in grado di sostenerlo.
Trenta anni dopo, all’inizio del 2022, con l’elezione di un nuovo presidente della Repubblica, la storia potrebbe ripetersi. E così, dalle parti del Quirinale, ecco riapparire il fantasma del 1992. Le premesse per il definitivo crollo dell’attuale, fragilissimo, sistema politico ci sono tutte. Sarebbe la fine della Terza Repubblica, del ciclo iniziato alle politiche del 2018. Con l’ascesa del Movimento 5 Stelle, il sorpasso elettorale della Lega su Forza Italia, al minimo storico, e il pessimo risultato delle forze di sinistra e di centro-sinistra, scese, dopo più di cento anni, sotto la quota dei 25 per cento dei voti espressi.
A ben guardare, proprio come avvenne con la bocciatura di Forlani, anche questa volta la battaglia per il Colle potrebbe portate alla fine di un ciclo. Questa volta a farne le spese sarebbe la variegata maggioranza istituzionale dei partitini commissariati da Mario Draghi e appena messi con le spalle al muro proprio dal premier tecnico nominato da Mattarella.
Perché SuperMario, dichiarata (finalmente) la propria disponibilità per trasferirsi al Quirinale e aver messo la decisione «nelle mani delle forze politiche», ha posto di fatto due condizioni molto pesanti. Primo, ha detto che per il Quirinale non riesce a immaginare una maggioranza troppo diversa da quella larghissima che sostiene il suo governo. Secondo, considerando chiusa la sua mission a Palazzo Chigi («un nuovo presidente del Consiglio non sarebbe un problema») ha fatto capire di essere anche pronto a dire addio alla guida dell’esecutivo. Il che, ovviamente metterebbe i partiti nei guai.
Come si vede, le premesse per il crollo del sistema ci sono tutte. Non dimentichiamo, poi, che dopo la caduta del secondo governo Conte i partitini che lo sostenevano non riuscirono a rimettere assieme una nuova maggioranza e, non osando andare al voto anticipato, alla fine accettarono il commissariamento di Mattarella che li mise nelle mani dell’ex presidente della BCE.
E adesso? Oggi il quadro è questo: il M5S è in via di dissoluzione e con 105 parlamentari in meno rispetto al 2018. La Lega risulta dimezzata rispetto al boom delle ultime europee e con un leader, Salvini, sempre più in difficoltà. Alla sua destra, anche Giorgia Meloni si lecca le ferite dopo la bruciante sconfitta dei suoi candidati alle ultime amministrative. Apparentemente chi sta meglio di tutti è il PD di Enrico Letta che ha vinto le amministrative ed è tornato primo nei sondaggi. Ma siamo sempre lì: attorno al 20 per cento e con un partito senza bussola che – come accusò Zingaretti dimettendosi da segretario – è un insieme di capicorrente in cerca di poltrone.
Sembra una situazione ideale per decine di “franchi tiratori” che, trincerandosi dietro il voto segreto, potrebbero impallinare qualsiasi candidato al Quirinale e chiudere così l’attuale ciclo politico. Proprio come avvenne nel 1992 con la bocciatura di Forlani…