Repubblica delle banane. È bastato poco per sollevare un vespaio politico. È bastata una finestra aperta sui giardini del Quirinale mentre Mattarella pronunciava il suo discorso di fine anno. Mentre il capo dello Stato faceva gli auguri di Capodanno agli italiani ricordando la prossima fine del suo settennato: tra pochi giorni «si concluderà il mio ruolo di Presidente».
Tomaso Montanari, intellettuale dell’area della sinistra radicale, storico dell’arte, rettore dell’Università per Stranieri di Siena, ha colpito con un messaggio via Twitter. Montanari se l’è presa con gli alberi dei giardini del Quirinale e con la loro simbologia: «La prevalenza della palma nell’iconografia presidenziale. Il ritorno del rimosso: la repubblica delle banane che siamo…». Giovanni Grasso, portavoce del presidente della Repubblica, giornalista parlamentare di antica data, ha replicato immediatamente sempre via Twitter: «Il professore, anzi il magnifico rettore, si intende sicuramente di arte ma poco di botanica. Il frutto della palma è il dattero, l’albero che produce le banane è il banano…».
Grasso ha risposto a titolo privato, come «giornalista, scrittore, montanaro» e non come consigliere di Sergio Mattarella per la stampa e la comunicazione. Montanari, uno dei protagonisti dell’assemblea organizzata nel 2017 dalla sinistra critica al Teatro Brancaccio a Roma, ha preso atto dell’errore di botanica, tuttavia non ha rinunciato alla polemica politica: «Comunque, gentile @giovannigrasso, che il capo della comunicazione della presidenza della Repubblica metta alla gogna un cittadino, che non si unisce al coro delle lodi, per una battuta critica, è tipico delle repubbliche delle banane. Quelle con le palme e la lesa maestà».
Tomaso Montanari va controcorrente. Sergio Mattarella nei suoi sette difficili anni da presidente della Repubblica ha collezionato una valanga di lodi dai cittadini italiani (i sondaggi lo danno in vetta ai consensi) e da gran parte del mondo politico. Ha dato il mandato a ben cinque governi (Renzi, Gentiloni, Conte uno, Conte due, Draghi). La nascita del Conte uno tra M5S e Lega, il primo esecutivo populista nell’Europa occidentale, fu particolarmente travagliata. Su Mattarella piovvero furenti attacchi (Luigi Di Maio arrivò ad annunciare la messa in stato di accusa del presidente della Repubblica, salvo poi fare marcia indietro e domandare scusa).
Il criterio del presidente della Repubblica è stato sempre lo stesso: governa chi ha la maggioranza in Parlamento. Una delle prove più difficili è stato il Covid-19 con il suo dramma di lutti, dolore, disastri sociali ed economici. Lo scorso febbraio Mattarella, davanti all’incapacità dei partiti di andare avanti, chiamò il tecnico Mario Draghi a dirigere un esecutivo di unità nazionale. La decisione piacque a quasi tutti, fu subita da tanti e contestata da alcuni.
Tra un mese ci sarà un passaggio molto difficile: l’elezione del nuovo presidente della Repubblica. Il toto presidente dà cento nomi diversi (Draghi, Berlusconi, Marta Cartabia, Amato, Casini, Letizia Moratti, Gentiloni, Pera) ), su tutto incombono i “franchi tiratori” nascosti nel voto segreto. C’è chi avanza anche la proposta di rieleggere Mattarella per l’ottimo settennato, ipotesi peraltro sempre scartata dall’interessato. Certamente la critica sollevata da Montanari sull’Italia “repubblica delle banane” non aiuta una eventuale seconda corsa di Mattarella al Quirinale. Il presidente della Repubblica nel discorso di fine anno è tornato a sollecitare unità e coesione per superare i problemi dell’Italia ma senza lanciare o soffermarsi su temi nuovi.