Alti pini mediterranei, rovi, arbusti e oltre, nella campagna, pecore al pascolo, fanno da cornice alla strada che attraversa una zona collinare accanto al raccordo anulare di Roma, poco distante dal cuore della capitale. Un’insegna avvisa che siamo all’interno di un’area protetta.
Ci troviamo nel parco della Marcigliana, una distesa di 4.000 ettari di terreno. Una serie di alture delimitate a Ovest, dal corso del Tevere, a Sud dal fosso della Bufalotta, e a Nord dal Rio del Casale. Questa zona era chiamata dagli antichi latini prima, e dai romani poi, “Latium Vetus” per la presenza di numerose città abitate da quegli antichi popoli. Nel territorio del parco si trovava, infatti, Crustumerium, una città fiorente che ha avuto uno sviluppo urbano importante prima della fondazione di Roma. L’antica Crustumerium è stata ipotizzata dagli archeologi sulle alture della Marcigliana vecchia, poco distante da dove ci troviamo. Le cronache storiche parlano di una città che si affacciava sul Tevere, tra Eretum e Fidenae, lungo la via Salaria. Crustumerium fu anche coinvolta nella leggenda del ratto delle sabine.
Percorrendo la strada, il cui asfalto pieno di buche rappresenta un antico ricordo del passato, si ha la sensazione di attraversare una zona rurale, tranquilla e rilassante. Siamo immersi nella campagna romana; piccole valli ricoperte di vegetazione a macchia con boschi di querce, aceri, olmi e cipressi. Qua e là alti pini mediterranei fanno la guardia al territorio sottostante. Alcune abitazioni private, cintate da muri e cancelli, si affacciano sul vecchio percorso. Lontano, dalla parte opposta di una valletta, un gregge di pecore al pascolo consuma un lento pasto, su di esse vegliano tre sornioni maremmani, cani pastori dal pelo bianco e folto. Un po’ più in alto, seduto sui resti di un albero sradicato dal tempo e dall’incuria, un pastore, poggiato al suo curvo e nodoso bastone, mi guarda da lontano.
Dietro una delle ultime curve della sinuosa strada, appare una spettrale costruzione grigia e in rovina. Il motivo della mia escursione, sono i resti di quello che un tempo fu un imponente edificio, ora ridotto a un rudere. Le finestre, senza più infissi, lasciano immaginare tanti occhi che dal buio scrutano i resti di un incolto giardino. La giornata è umida, una pioggerellina costante mi riempie di un senso di malinconia e d’inquietudine.
La struttura, a quanto è dato sapere, sembra sia stata costruita negli anni Trenta. Non è certo se lo stabile sia stato un manicomio, poi trasformato in convento, o viceversa. Secondo alcune voci potrebbe essere stato un collegio o un orfanotrofio femminile curato da suore, poi divenuto brefotrofio per finire casa di riposo per anziani divenuta famosa anche nella capitale. Una delle poche testimonianze certe è quella di una signora anziana che ricorda di aver vissuto da bambina in un brefotrofio gestito da religiose. La donna lo ricorda bello, curato e con tanti fiori. Un’antica memoria diversa da come appaiono oggi il fabbricato e il giardino. Tutta la struttura è circondata da una precaria recinzione, qua e là ci sono evidenti rotture praticate nella rete.
Vicino all’ingresso mi accoglie un giovane che afferma di essere il custode. L’uomo s’impegna a spiegare la pericolosità del luogo dove, a parer suo, è facile fare brutti incontri e mi chiede cinque euro per entrare, a pagamento della sua sorveglianza. Pago la gabella con l’assoluta consapevolezza di essere stato raggirato e attraverso un varco protetto da un pannello di legno che ha conosciuto tempi migliori. Da una porta laterale, dopo aver superato una barriera costituita da rovi spinosi, si entra nell’edificio. All’interno trovo delle scale che portano ai piani superiori. I gradini sono composti dal solo cemento, il marmo probabilmente è finito in qualche villa nelle vicinanze. Procedo con attenzione lungo la parete, le scale non hanno ringhiere e il pavimento è pieno di calcinacci. La prima parte dei gradini è mancante ed è stata sostituita da pannelli di legno scricchiolante.
Al primo piano, lunghi corridoi solcati da lame di luce provenienti dalle finestre portano nelle varie stanze, molte con i muri crollati. Al centro delle sale cumuli di mattoni o di ciò che ne resta. Sulle poche pareti ancora in piedi, mani di pseudo artisti hanno disegnato graffiti che rappresentano strani animali, frutto di fantasie contorte; bocche spalancate, grandi occhi e bestie a due teste ornano sporchi tramezzi. Ovunque scritte senza un filo logico, qualche poesia malinconica e tristi messaggi d’amore. In una stanza, oscurata da un albero cresciuto davanti a una finestra, fa mostra di sè un divano sfondato con le molle che escono da uno sporco tessuto damascato. In terra sudiciume e detriti. Nella stanza seguente, su un’intera parete è dipinta la testa di un’enorme medusa mitologica, accanto, sulla destra, una poltroncina che sembra sia lì per ospitare ammiratori di quell’opera d’arte. Nei piani superiori stessa situazione. In una stanza, un inquietante animale a due teste dà il benvenuto a degli improbabili visitatori. Qua e là un’imponente vegetazione cerca di riprendere i suoi naturali spazi entrando dalle finestre.
Le scale proseguono fino al terzo piano, dove qualche stanza è più pulita di quelle nei piani inferiori. Qui forse hanno trovato rifugio dei barboni o qualche coppia di giovani in cerca di momenti d’intimità. Probabilmente tra queste mura sono state organizzate feste e incontri tra i ragazzi della zona. Si dice anche che in questo triste e spettrale palazzo ci siano state storie di satanisti o di tossicodipendenti, non sappiamo se sia vero o meno, sul pavimento non ci sono siringhe o altri attrezzi che lo facciano pensare, almeno non visibili ad uno sguardo superficiale.
Gli ultimi restanti gradini ci portano sul terrazzo, dove finalmente si può respirare aria fresca e pulita. Sembra di tornare a vivere dopo un incubo. Di lassù si gode di una vista che spazia nella bella campagna romana. La pioggerellina ha smesso di cadere e il sole è tornato a fare capolino tra le nuvole. La luce e l’aria fresca mi aiutano a togliere di dosso quell’inquietudine che mi ha accompagnato per tutta la visita nel lugubre fabbricato.
Tutta la struttura, per lo stato di abbandono in cui versa, per le storie che si raccontano e per quelle lame di luce che creano giochi di chiaro scuro nei lunghi corridoi e nelle ampie stanze piene di strani e inquietanti graffiti, si presta come soggetto per fotografi professionisti e non, oltre che per amanti di video. L’edificio, prima di andare in disuso, probabilmente negli anni ’80, è stato usato come set cinematografico nel film “I nuovi mostri”, per la regia di Risi, Monicelli e Scola. Nella pellicola, un giovane Alberto Sordi lascia l’anziana madre in un ospizio. La struttura sarebbe stata usata in seguito anche per “La banda del gobbo”, un film di Umberto Lenzi.
Il posto vale sicuramente una passeggiata, ma alla luce del sole, e non è certo consigliabile nelle ore serali, né tantomeno in quelle notturne.
Dopo una prima visita nel 2013, in cerca di spunti e d’immagini fotografiche, sono tornato di nuovo nell’ex manicomio nella primavera dello scorso anno, la situazione non era cambiata, nessun intervento all’interno della struttura né all’esterno. Al secondo piano del fatiscente palazzo giovani allievi di una scuola di cinematografia con i loro insegnanti stavano realizzando un video su una storia d’amore; per la scena di passione tra due interpreti era stata scelta una di quelle stanze adornate con un graffito; uno strano ed enorme animale con una lunga coda guardava gli attori dall’alto della parete in fondo alla stanza. Più che una storia di passione e d’amore in quell’ambiente si sarebbe potuto girare un film dell’orrore.
Nei giorni scorsi, passando da quelle parti e spinto dalla curiosità, sono tornato di nuovo sulla strada che porta all’ex manicomio, ma questa era sbarrata con un cancello. Una scritta vietava l’ingresso alle automobili. A lato dello sbarramento un sentiero conduceva verso la vecchia struttura. Chissà, forse il destino dell’ex manicomio o ex brefotrofio stava cambiando, e quel grande palazzo, abbandonato per tanti anni, si stava avviando verso nuovi orizzonti.