Alleanze (vere o presunte), congiure, inganni, tradimenti, piani segreti e false piste per ingannare il nemico. Intanto, all’orizzonte sventolano, sempre più visibili e minacciose, le bandiere a stelle e strisce (ben otto sono i club di Serie A in mano agli americani) a cui si frappone un manipolo di veterani in doppio petto che, barricati nei palazzi romani del potere, attendono, con archi e frecce avvelenate, l’assalto finale con la stessa tranquillità e freddezza di un serpente a sonagli.
Ecco gli schieramenti pronti alla battaglia: da una parte la 7a Cavalleggeri guidata dalle “nordiste” Juventus, Inter e Milan, dall’altra gli irriducibili indiani, con in prima fila Lazio e Napoli.
In mezzo lo sceriffo Gabriele Gravina, presidente F.I.G.C., che in caso di disfatta per entrambe le fazioni, è pronto a commissariare i litiganti con buona pace dei contendenti e un bel sospiro di sollievo.
È la Serie A ma sembra il Far West. È vero, parrebbe buffo immaginare Beppe Marotta, dg dell’Inter, nei panni del generale Custer e Claudio Lotito, storico presidente della Lazio, in quelli di Toro Seduto, ma se pensiamo che il regista dell’operazione “Presidenza Lega Serie A” è Aurelio de Laurentiis, uno che di film e soprattutto di cine panettoni se ne intende, allora il quadro appare più chiaro e trovare un titolo a questo film appare facile se non scontato: Fort Apache. Chi farà la parte di John Wayne? Questa volta il finale è tutto da scrivere.
In questi casi in Vaticano si direbbe: chi entra papa esce cardinale. Illustri personaggi e perfetti carneadi si sono, infatti, cimentati prima e scottati poi nella pericolosa e impervia scalata a presidente della Lega Serie A. Ultimo in ordine di tempo è stato Carlo Bonomi, attuale presidente di Confindustria, che, proposto in pompa magna da tutti i quotidiani nazionali (sportivi ed economici) come salvatore del calcio, ha subito una pesantissima umiliazione nell’ultima assemblea di via Rossellini: un solo miserissimo voto sui 14 necessari per portare a casa la partita. Buon per lui che sia rimasto a seguire le votazioni comodamente sdraiato da una spiaggia delle Maldive dove era in vacanza con la famiglia. Almeno avrà potuto sopperire al rosso della vergogna con quello dell’abbronzatura.
E dire che tutto questo tragico pandemonio era nell’aria e nasce dalle dimissioni dell’ex presidente della Lega, Paolo Dal Pino, manager milanese di lungo corso con un curriculum lungo un kilometro (Tim, Virgilio, Kataweb), un ottimo rapporto con il presidente federale Gabriele Gravina e una visione strategica diametralmente opposta rispetto a quella degli influentissimi “padri padroni” di sette top club italiani (Lazio, Napoli, Juventus, Fiorentina, Inter, Verona, Atalanta).
Proprio queste società, un anno fa, infatti chiesero a gran voce le sue dimissioni. Era il 17 aprile 2021 e con una lettera durissima indirizzata al piano più alto di via Rossellini le “7 scontente” criticavano aspramente l’operato di Dal Pino su quattro punti essenziali: diritti tv, fondi di investimento, presenza tifosi durante il campionato e nel corso di Euro 2021. In poche parole: non andava bene nulla, andava cambiato tutto. Lui compreso, anzi in primis. Troppo temerarie le sue proposte, troppo rivoluzionarie le soluzioni ai mille problemi causati dalla pandemia.
Dal Pino è stato, infatti, un forte sostenitore del rinnovamento a tutti i costi volendo collocare la Lega Serie A sul mercato come media company creando così, mediante la realizzazione di una piattaforma ad hoc, le condizioni per un futuro da produttori diretti del proprio spettacolo sul modello delle leghe professionistiche più avanzate. Non solo, da manager navigato e visionario, è voluto andare oltre con un’operazione che gli ha messo contro i maggiori presidenti della Serie A, affrettando, e di molto, la sua fine: l’apertura ai fondi di investimento esteri come partner nella gestione e nello sviluppo internazionale della Lega Serie A.
Apriti cielo!!!
In un contesto come quello italiano resistente e allergico al cambiamento come la Sicilia latifondista, narrata mirabilmente da Tomasi di Lampedusa, e in cui la maggioranza degli stadi è fermo ai Mondiali del 1990, la reazione è stata, metaforicamente parlando, forte e scomposta come una sonora pernacchia a cui è seguita la relativa bocciatura. Ma a questo punto il vaso era stracolmo tanto per Dal Pino quanto per la maggior parte dei presidenti della Serie A. Come spesso accade il vecchio potere aveva, tenacemente, resistito al nuovo, ma a quale prezzo? E per quanto tempo ancora?
Quello che è parso, purtroppo, evidente è senza dubbio (e per l’ennesima volta) una divisione e una debolezza strutturale impossibile da correggere per chiunque e quel che è peggio con alle porte un buco di oltre un miliardo di euro di mancati incassi e i top club (Juventus, Milan, Inter) che scalpitano, da tempo, per entrare nella tanto vituperata Superlega.
È inutile dire che fallimento della “linea dal Pino” è direttamente proporzionale a quello della “Lega manageriale” che avrebbe dovuto portare al tanto sospirato e necessario cambiamento di visione, prospettiva ed obbiettivi. Ora, quello che rimane sul campo, oltre ai problemi irrisolti e ai malumori decennali sono, proprio, le parole di Dal Pino nella sua lettera di commiato. Un vero e proprio” Je accuse” al secolare provincialismo del nostro calcio.
«Ho provato a proporre idee e innovazione in un contesto resistente al cambiamento. Sono orgoglioso di aver lavorato con una strettissima unità di intenti con la FIGC e ringrazio il Presidente Federale Gabriele Gravina, gentiluomo, amante di questo sport e guida ispirata del calcio italiano e dei principi di correttezza e lealtà sportiva con cui ho condiviso due anni di battaglie fianco a fianco per sopravvivere alla pandemia e per cercare di rilanciare il calcio italiano in mezzo ad infinite difficoltà esterne ed interne».
Il prossimo tre marzo sarà l’ultimo appello per nominare il nuovo presidente della Lega Serie A, questa volta ai candidati basteranno 11 voti per essere eletti. Uno, in particolare, è stato il parametro con cui sono stati, accuratamente, scelti i candidati: aderenza con la politica e con il Governo Draghi. Il motivo è semplice e richiama a quei famosi ristori di cui i padroni del pallone non hanno usufruito come avrebbero dovuto, voluto e potuto.
Ecco, allora, spuntare i tre contendenti: Valerio Casini (classe 1976), capo di gabinetto del ministero della Cultura. Mauro Masi (classe 1952) ex direttore della Rai e attualmente presidente di Consap. Lorenzo Bini Smaghi (classe 1956), presidente del consiglio d’amministrazione di Société Generale e molto vicino al presidente del consiglio Mario Draghi.
A poche ore dal voto la sfida è apertissima e al momento sarebbe lo sfidante più giovane supportato da De Laurentiis e Lotito ad avere la meglio. Quello che è certo è che questa è, davvero, l’ultima occasione. Un’occasione storica, irripetibile. La prossima volta potrebbe accadere, che la maggioranza delle squadre di Serie A siano in mano ad imprenditori o fondi stranieri.
Ad oggi, infatti, con la recentissima vendita del 55% dell’Atalanta al fondo statunitense Bain Capital di Stephen Pagliuca su venti club partecipanti al massimo campionato sono ben otto quelli gestiti con capitali made in Usa a cui si dovrebbe aggiungere anche l’Inter: il presidente Zhang a fine campionato venderà le quote di maggioranza della squadra nera azzurra e sembra molto probabile che verranno acquisite dalla Bridge sport del tycoon Daniel Straus.
La nostra Serie A, anche a causa della profondissima crisi finanziaria provocata dal coronavirus, è diventata sempre di più terra di conquista per i Nordamericani che al pari dei vecchi territori del Dakota e dell’Arizona considerano la nostra Italia una riserva indiana da comprare a suon di dollari. I risultati sono ormai sotto gli occhi di tutti: difese inesistenti, caterve di gol, cambi giocatori come nella Nfl e nella Nba. Quanto fatichiamo a trovare nelle partite odierne quel calcio tradizionale fatto di concretezza, equilibrio e prudenza che ci ha lasciato in eredità quattro titoli mondiali e due europei.
Quanto è complicato, allora, anche qualificarci al Campionato del Mondo (a marzo ci attendono agli spareggi Macedonia del Nord e la vincente tra Turchia e Portogallo) con soli tre giocatori in campo per ogni squadra della massima serie.
E allora, questo è un ultimo appello, un appello senza condizioni. Almeno adesso e per poche ore, cari presidenti di Serie A, sotterrate l’ascia di guerra, stringetevi la mano, sedetevi al tavolo e fumate un bel calumet della pace. Serve unità, serve condivisione, servono le riforme. Fuori il futuro è come Fort Apache ma non l’avete capito: questa volta gli indiani siete voi!!!