La verità, le verità, le ragioni visibili e quelle nascoste, il perché, la temporalità, lo scenario italiano e quello internazionale… Si riuscirà mai a trovare il corretto bandolo della matassa tra le tante verità e le molte bugie, tra le ragioni della Giustizia, del populismo e i nuovi scenari che si andavano delineando in Europa e nel mondo?
Su Tangentopoli sono stati scritti fiumi di inchiostro, spesso con malcelata soddisfazione o con flebili difese d’ufficio. Ma c’è un paradossale comun denominatore tra l’inizio degli anni di Piombo e l’avvio dell’inchiesta Mani Pulite: una sorta di approvazione neanche tanto strisciante, i germi di quel populismo di cui ancora fa fatica a liberarsi il nostro Paese.
Da quel 17 febbraio 1992, giorno dell’arresto del “mariuolo” Mario Chiesa sono trascorsi trent’anni, quasi tre generazioni e il bilancio, seppur dimenticato o poco presente nella memoria è drammatico: 41 suicidi tra politici e imprenditori, circa 1.300 condanne definitive, un giro di tangenti calcolato in 10 mila miliardi l’anno (di lire), una classe politica spazzata via, una rivoluzione totale degli schieramenti politici, l’arrivo sulla scena del berlusconismo, la politica e il Paese da gestire come un’azienda.
Se in quel periodo si fece un uso distorto della giustizia con l’uso delle manette e la carcerazione preventiva utilizzate come metodo intimidatorio, è anche vero e utile ricordare che l’odore della corruzione aveva invaso l’intero Paese ed era tangibile a tutti i livelli, ma è anche vero che il finanziamento dei partiti, di tutti i partiti, passava per una sorta di Cencelli della tangente.
Ma va anche sottolineato che in quel momento ai magistrati di Milano era consentito tutto, tanto che di fronte ad un timido tentativo della politica di reagire legislativamente la reazione fu cruenta e immediata, forti dell’appoggio che godevano nel Paese, i magistrati arrivarono a minacciare pubblicamente le dimissioni, la politica fu costretta a retrocedere e non se ne parlò più. Mani Pulite andò avanti, in questo caso con somma protervia, la politica si era inchinata ai giudici.
Antonio Di Pietro, Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo trovarono terreno fertile e si insinuarono anche in un contesto internazionale confuso e in piena evoluzione: l’Unione Sovietica si era disgregata solo l’anno prima, mentre il muro di Berlino era crollato da tre anni. La guerra fredda che aveva gestito tutte le scelte della politica era al capolinea, altri scenari iniziavano ad affacciarsi all’orizzonte.
Così quella corruzione come metodo di finanziamento che in realtà in molti negli anni si erano preoccupati di denunciare, con scarsa attenzione e nessun seguito, esplose improvvisa con tutta la sua potenza, una carica esplosiva che travolse tutti, quasi tutti. Purtroppo tutti ne pagarono le conseguenze, spesso drammatiche ed eccessive, ma tipiche di una rivoluzione e toccò a Bettino Craxi impersonare il male assoluto, lui che ebbe il coraggio di rivelare nel suo discorso alla Camera il metodo di finanziamento dei partiti. «Tutti sanno che buona parte del finanziamento politico è illegale», disse, sfidando chi non fosse d’accordo ad alzarsi e dirlo subito: nessuno si alzò.
Gli elementi da valutare e le storie personali di quegli anni sono tante e diverse e questa breve riflessione non è il luogo adatto ad approfondire una vicenda così complessa e ricca allo stesso modo di arroganze e sofferenze; chiudo quindi con le parole di uno degli attori di quegli avvenimenti, Gherardo Colombo: «A me (Mani Pulite n.d.r.) ha lasciato la consapevolezza assoluta che fenomeni così diffusi di trasgressività possano essere affrontati soltanto a un livello diverso del processo penale. È impossibile riuscire a marginalizzare la corruzione attraverso un processo penale. Non è lo strumento giusto e ne abbiamo la prova. Dopo trent’anni di indagini e processi siamo ancora qui a parlare di corruzione e a farci la domanda: com’è la corruzione oggi rispetto ad allora. E intanto sono passati trent’anni».