È ancora presto per capire se Facebook ha veramente iniziato la sua discesa verso la crisi. Ma gli ultimi dati parlano chiaro: le persone che usano quotidianamente il maggior social network del mondo sono diminuite. Per ora a 1,929 miliardi, con un piccolo calo registrato nel quarto trimestre del 2021, che però è il primo, dopo 18 anni di boom ininterrotto.
Anche gli altri indicatori segnalano un rallentamento della crescita del gigante digitale che – non a caso – ha bruciato 250 miliardi di dollari in Borsa. E altri sembra destinata a perderne, visto che ha mancato la soglia di 1,95 miliardi di utenti. Obiettivo che gli analisti avevano previsto per il 2021.
La causa principale dell’appannamento della piattaforma è la perdita di reputazione. Il fatto d’essersi troppe volte trasformata in strumento di disinformazione, veicolo attraverso cui gruppi di utenti non proprio raccomandabili hanno potuto diffondere odio, bugie e fake news. Il che oggi rappresenta il punto debole del colosso fondato da Zuckerberg, seguito da una diffusa arroganza della piattaforma, di cui anche Sfoglia Roma ha fatto le spese.
Lo ha raccontato a novembre del 2017 Rodolfo Ruocco su questo sito. Un giorno, accendendo il computer, come ogni mattina, per mettere l’articolo più importante di www.sfogliaroma.it sulle pagine di alcuni gruppi, si è trovato davanti a una schermata vagamente minacciosa di Facebook: «Azione bloccata», seguita da un preoccupante: «Accesso vietato fino alle 7,49 del 15 novembre». L’arbitro aveva fischiato il fallo di rigore («sembra uno spam») e immediatamente era arrivata la sospensione senza appello («questo blocco non può essere rimosso per alcun motivo»…
Da notare che l’ipotesi di spam era del tutto priva di fondamento e che il verdetto era stato preso dagli occhiuti guardiani della società senza verifiche e senza contraddittorio. Con buona pace della democrazia del clic, stava semplicemente accadendo che il nostro giornale online andava sempre meglio e – quindi – i poliziotti di Facebook avevano deciso di equiparare un articolo postato “troppe volte” a uno spam.
Allora è lecito chiedersi come mai il maggior social del mondo non abbia riservato la medesima attenzione del «rispetto degli standard della community» a tanti utenti che hanno propagato fake news e postato messaggi di odio.
Per capire che cosa è successo nelle segrete stanze del colosso fondato e controllato da Zuckerberg, bisogna leggere Facebook: l’inchiesta finale (recentemente pubblicato in Italia da Einaudi). In più di 350 pagine, Cecilia Kang e Sheera Frenkel, giornaliste del New York Times, hanno raccontato un dietro le quinte fatto di scontri, retroscena e particolari imbarazzanti. Un lavoro meticoloso durato cinque anni con oltre 400 interviste di dipendenti e collaboratori ad ogni livello.
Quasi un diario, tra le presidenziali Usa del 2016 e l’assalto al Congresso del 6 gennaio 2021. Perché è stato in questo periodo che il più potente social del pianeta si è trasformato in uno strumento di disinformazione. Secondo la documentata ricostruzione delle giornaliste autrici dell’inchiesta «non si può parlare di incidenti o di perdita di controllo», perché Zuckerberg fu avvisato più di una volta dai suoi collaboratori, e gli fu detto che bisognava intervenire cambiando direzione.
Ma lui “ignorò ogni allerta”, andando avanti come se nulla fosse, senza bloccare gli utenti che propagavano fake news. Perché la sua strategia era sempre stata quella di attrarre e connettere il maggior numero di persone, in modo da garantire aumento di traffico e pubblicità, «in una logica di crescita e di guadagno per la conquista di un potere assoluto». Come fu quello di Cesare Augusto, «l’imperatore romano che Zuckerberg idolatrava da giovane, al punto da esserne ossessionato…».