Di Maio atlantista. La crisi dei cinquestelle ha mille facce diverse. Conte discusso presidente pentastellato pesa sempre di meno. Grillo garante, fondatore e artefice dei passati trionfi anti sistema del M5S è sempre più silenzioso. Di Maio ministro degli Esteri è una giovane appannata promessa cinquestelle.
Per anni Di Maio è il promettente delfino di Grillo. Mena sui partiti tradizionali da cancellare, sulle élite italiane ed europee da abbattere, picchia duro contro l’euro, l’Unione europea, la Nato. Sulla scia di Grillo esalta il potere rivoluzionario del populismo e del sovranismo.
Nel 2018 la sua stella brilla alta nel firmamento della politica italiana: miete una valanga di successi dopo l’enorme vittoria grillina nelle elezioni politiche di quell’anno. Egli è capo politico del Movimento, vice presidente del Consiglio, ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico.
Ma quasi subito cominciano i guai. Non apre il governo e il Parlamento “come una scatola di tonno” (secondo lo slogan di Grillo) ma ci entra dentro. Assieme al leghista Salvini, è il grande protagonista del governo Conte uno, il primo esecutivo populista dell’Europa occidentale. Scoppiano i contrasti con il segretario del Carroccio su tanti temi: diritti civili, ambiente, immigrati, grandi opere, tasse.
Scoppia la crisi dei cinquestelle. Lo scontro è tra l’anima di destra e di sinistra del populismo. Il no all’euro di Di Maio diventa sì. Lo stesso succede per la Tap (il metanodotto che attraversa il Mare Adriatico fino alla Puglia), la Tav (l’alta velocità ferroviaria Torino-Lione). Il rilancio dell’Alitalia e dell’ex Italsider di Taranto sono un fallimento. Unico successo, con non poche ombre, è il varo del reddito di cittadinanza: lenisce la crisi di chi non arriva a fine mese ma non crea occupazione e, al contrario dell’azzardata promessa di Di Maio, non abolisce la povertà.
La crisi dei cinquestelle deflagra. Arriva una sequela di sconfitte: naufraga il governo populista con Salvini; patisce una valanga di disfatte nelle elezioni amministrative; Di Maio si dimette da capo del M5S, accetta a malincuore prima il governo Conte due con gli antichi nemici del Pd e poi quello di unità nazionale guidato addirittura dal tecnico Draghi con il demonizzato Berlusconi.
Di Maio è ministro degli Esteri nel governo Draghi, il presidente del Consiglio accusato di “avvelenare i pozzi” quando dirigeva la Banca centrale europea. Ma poi Di Maio cambia radicalmente posizioni: «Il M5s è cresciuto…ha imparato dagli errori», ora ha «l’assoluta contrarietà ad uscire dall’Europa e dall’euro». Spinge per una linea governista al posto di quella populista: i cinquestelle «scelgono di essere finalmente e completamente una forza moderata, liberale, attenta alle imprese, ai diritti». Rivaluta anche Macron. Si pente di essere andato in Francia, assieme con Alessandro Di Battista, a sostenere le lotte dei “gilet gialli”: «Oggi voterei Macron».
C’è Di Maio atlantista. Dal 24 febbraio deve fare i conti con l’invasione russa dell’Ucraina, una prova durissima per lui titolare della Farnesina. Da ministro degli Esteri si schiera totalmente con Mario Draghi nel condannare l’aggressione di Putin. Si schiera per l’invio delle armi leggere a Kiev (posizione contestata all’interno dei grillini) e per le sanzioni economiche più dure verso Mosca sul modello americano. Accusa Putin un tempo elogiato. Respinge “i ricatti”, il ministero degli Esteri russo rigira al mittente l’accusa. Di Maio atlantista dice: «Non ci saranno veti» da parte dell’Italia anche allo stop agli acquisti di gas, petrolio e carbone dal Cremlino. Comunque lega queste scelte, molto dolorose per l’Italia estremamente dipendente soprattutto dalle importazioni di metano, a due condizioni: «Il tetto massimo al prezzo del gas e il fondo di compensazione» da parte di Bruxelles. Sono le due condizioni poste dal presidente del Consiglio e sulle quali la battaglia è aperta nell’Unione europea.
Il ministro degli Esteri però frena a spedire armi pesanti all’Ucraina oltre a quelle leggere: le decisioni vanno prese dal governo «sempre sul diritto alla legittima difesa del popolo ucraino». Giuseppe Conte boccia seccamente l’idea. Il presidente cinquestelle anticipa il no in Parlamento a questa scelta: «Il Movimento si oppone all’invio» di armi offensive e controffensive.