Quella delle vene varicose è la patologia al quarto posto tra le malattie croniche in Italia. Si manifesta nel 20 per cento delle donne e nel 15 per cento dei maschi adulti. Con un costo socio-economico molto alto e di cui non si parla.
«Eppure tutto questo potrebbe essere evitato», si accalora il chirurgo Paolo Valle, «perché intervenire in tempo su una vena varicosa, con una moderna tecnica non invasiva, oggi può essere rapido e poco costoso per la Sanità pubblica».
67 anni, flebologo dell’Ospedale S. Eugenio di Roma, presidente della neonata Accademia Romana di Flebologia, Valle spiega che «un intervento ambulatoriale, senza necessità di particolari attrezzature, richiede solo un medico e un infermiere e dura in media appena una trentina di minuti».
In questo caso, quale sarebbe il costo?
«Il rimborso a carico del Servizio sanitario pubblico è di 430 euro. Al contrario, restare ancorati alle vecchie metodiche significa modificare completamente il setting assistenziale: ricovero, sala operatoria, eccetera…».
E la spesa?
«Risulterebbe almeno triplicata. Senza considerare che, spesso, complicazioni tipo trombosi, sindrome trombo-embolica e ulcera fanno letteralmente esplodere i costi diretti e indiretti».
Cioè?
«Stiamo parlando di oltre 300 milioni di euro e di circa due milioni di giornate lavorative perdute ogni anno».
Allora come mai non se ne parla?
«Non è che se non ne parla, il problema è che il più delle volte lo si fa in maniera poco corretta. Mi spiego: fino a circa 30 anni fa la chirurgia tradizionale rappresentava il solo metodo di intervento sulla patologia varicosa. Ma nel corso degli anni l’evoluzione tecnologica ha permesso di affinare la tecnica chirurgica e di utilizzare nuove metodiche non invasive».
E come mai non vengono adottate sempre?
«Perché bisogna saperle usare e per farlo occorre una formazione specialistica. Insomma un flebologo, come tutti gli altri specialisti, dovrebbe fare solo quello».
Peccato che in Italia non esista la specializzazione. Come lo spiega?
«La flebologia è sempre stata considerata una Cenerentola e, di conseguenza, non è mai stata presa nella dovuta considerazione».
Non le sembra vittimismo?
«Assolutamente no. La prova è che sei anni fa nel nostro Paese è stata abolita perfino la specializzazione di Angiologia».
E questo che cosa c’entra con la flebologia?
«L’esistenza di un reparto di Angiologia, consentiva almeno di convogliare i pazienti in un ambito idoneo. Invece adesso un medico di famiglia spesso non sa bene nemmeno dove indirizzare un paziente varicoso».
Quindi l’Accademia di flebologia nasce per avere la specializzazione?
«Noi non ci facciamo illusioni. La specializzazione ci sembra, al momento, ancora difficile. Ma quello che ci sembra possibile, è ottenere la prescrivibilità della “visita flebologica”, che tra l’altro è già possibile in alcune regioni italiane. Questo permetterebbe di identificare spazi adeguati per la cura della patologia nelle strutture pubbliche».
Avete escluso la sanità privata per evitare che la flebologia diventi un business come la chirurgia estetica?
«Se tutti i membri dell’Accademia svolgono la loro attività in strutture pubbliche, universitarie e ospedaliere, è perché l’abbiamo considerata una garanzia per i discenti ma anche per i pazienti».
E i discenti come li formerete?
«Uso uno slogan che mi ha appena regalato il collega Donato Mancini, socio dell’Accademia: “Flebologi che formano nuovi flebologi”. Mi sembra l’unico modo per sopperire all’assenza di una scuola».
Una forma di artigianato?
«Sì. Abbiamo scelto una partenza dal basso. E proprio per questo apriremo le porte del nostro posto di lavoro a chiunque voglia capire meglio prima di iniziare il suo apprendistato».