Il sovranismo traballa, Meloni atlantista. Prima le Regionali siciliane, poi Palazzo Chigi. Giusto un anno fa Giorgia Meloni annunciò su Rai Tre, a Mezz’ora in Più: «Io mi preparo a governare la nazione». Ora la presidente di Fratelli d’Italia sta preparando le Regionali siciliane del prossimo autunno, poi si occuperà delle elezioni politiche all’inizio del 2023.
Per il voto in Sicilia l’obiettivo è la rielezione di Nino Musumeci a Palazzo dei Normanni, per quello politico la difficilissima scommessa è di sostituire Mario Draghi alla presidenza del Consiglio.
Con gli alleati di centro-destra il rapporto è complicato. I contrasti non sono pochi, tra questi c’è chi candidare alla presidenza della regione Sicilia. La leader di Fdi insiste per ricandidare Musumeci: «Un governatore uscente si ricandida, non lo si rimanda a casa perché è amico della Meloni». Ma Salvini e Berlusconi prendono tempo. Il segretario della Lega mette le mani avanti: «Non deciderò io. Non decideranno tavoli romani o milanesi, ma i siciliani». Forza Italia è molto forte in Sicilia, il coordinatore azzurro Tajani gioca a carte coperte: occorre «un candidato vincente, vediamo i sondaggi, non ci sono preclusioni».
Giorgia Meloni si sente sempre più forte. Il suo partito aveva appena il 4,3% dei voti nelle elezioni politiche del 2018 e il 6,4% nelle Europee del 2019. Guidava il partito più debole del centro-destra. Da allora ha mietuto grandi successi: secondo gli ultimi sondaggi elettorali Fratelli d’Italia sarebbe diventato addirittura il primo partito italiano superando Lega, Forza Italia, M5S e Pd. Secondo una rilevazione Supermedia YouTren/Agi se si votasse oggi per le Politiche conquisterebbe il 22,4% dei consensi: sarebbe il maggiore partito italiano. Seguirebbero in ordine decrescente: Pd (21%), Lega, (15,6%), M5S (13%), Forza Italia (8,6%).
Il centro-destra, se non ci saranno imprevisti, batterebbe il centro-sinistra e i grillini. E, sorpresa nella sorpresa, Giorgia Meloni, ex Msi, ex An, ex Pdl, andrebbe a Palazzo Chigi. La presidente di Fdi ha rilanciato la triade identitaria della destra: Dio, Patria, Famiglia. Ha rotto ogni legame culturale e politico con il fascismo («I nostalgici del fascismo non ci servono, sono solo utili idioti della sinistra») come già fece Gianfranco Fini.
È rimasta all’opposizione, al contrario di Lega e Forza Italia, attaccando duramente tutte le scelte di Draghi in economia e nella strategia anti Covid. Però ha appoggiato e appoggia la linea draghiana nella guerra Russia-Ucraina: armi a Kiev e sanzioni contro Mosca. Meloni atlantista ha definito “un patriota” Zelensky e “un aggressore” Putin. Ha affermato una linea pienamente atlantista e occidentale, rimuovendo le antiche zavorre anti americane dell’estrema destra. Ha rimosso anche le residue simpatie verso la Russia.
Meloni atlantista opera la svolta verso gli Stati Uniti. Ha suonato una musica molto diversa da quella oscillante di Salvini («Qualcuno parla d’inviare altre armi, io non ci sto») e di Berlusconi («Io dico che inviare armi significa essere cobelligeranti»). Sulla guerra in Ucraina, pur essendo all’opposizione, è sulla linea draghiana di contrapposizione a Putin per arrivare alla pace: dice sì all’Italia «parte del blocco atlantico, senza rinunciare a muovere dubbi sui nostri alleati».
La conversione in una forza di destra conservatrice, democratica, atlantista paga: sta asfaltando Berlusconi e Salvini. Carroccio e Forza Italia sono avvertiti. Però anche il centro-sinistra e i cinquestelle dovrebbero riflettere sulle rispettive frane di consensi.