Domenico Maceri, nel suo articolo “Il mea culpa di Harvard sul suo passato schiavista”, pubblicato in questo giornale il 19 maggio u.s., ha dato conto del tardivo pentimento di alcune tra le migliori università americane per il loro passato schiavista e del loro tentativo di espiare la colpa mediante una raccolta di fondi da amministrare con discendenti di schiavi legati alla scuola.
Maceri è professore emerito all’Allan Hancock College, Santa Maria, California. Egli riporta che il pentimento si riferisce a comportamenti tenuti al tempo della Tratta degli Schiavi (XVII-XVIII e XIX secolo), con particolare riferimento all’essersi serviti di schiavi, di avere utilizzato cadaveri di schiavi per condurre esperimenti che miravano almeno in parte a cercare di dimostrare l’inferiorità dei negri, all’avere venduto schiavi per autofinanziarsi, all’avere beneficiato di rapporti finanziari con la schiavitù anche mediante i finanziamenti ottenuti da aziende che si servivano di schiavi, all’avere beneficiato della schiavitù anche sotto forma di rojalties per la riproduzione di fotografie coperte da diritti d’autore.
Inoltre, fa notare che il pentimento è stato stimolato dalle ricerche di studenti e docenti, e da mostre di musei e biblioteche, e dalla tenuta di corsi sul razzismo, e che lascia intravedere il coraggio dei pentiti, in relazione al rischio di vedersi decurtare i contributi delle grandi aziende e di essere accusati dalla Destra americana di volere indottrinare gli studenti con idee di sinistra, perché gli studi che rivalutano la storia abominevole della schiavitù non solo ricordano le ingiustizie passate ma le collegano a quelle presenti.
La problematica evidenziata da Maceri si ricollega a un’altra, in qualche modo analoga, che è anch’essa attualmente materia di dibattito nelle università americane, e, in qualche modo, riguarda anche noi. Mi riferisco alla decolonizzazione, non già al percorso intrapreso dalle ex colonie per liberarsi della supremazia coloniale, ma al fatto che siamo ancora soggetti all’ideologia del colonialismo, che si rispecchia nei nomi di strade e statue che rendono omaggio a responsabili di massacri e genocidi, negli oggetti dei musei strappati ai loro proprietari originari, nei resti umani di persone non identificate, conservati come oggetti da collezione, tutte cose che nascono da un background coloniale, se non addirittura razzista.
Tale soggezione si rispecchia anche nel modo d’interpretare e di narrare la Storia. In questo ambito più che altrove è necessario cambiare il focus, la nostra prospettiva.
Occorre fare spazio a molteplici prospettive, che mostrino i diversi contesti che determinano il modo in cui consideriamo gli oggetti e i temi.
Nello scrivere un libro di storia, decolonizzare l’argomento trattato significa sforzarsi di riportare i comportamenti narrati alla mentalità dell’epoca. Voglio soffermarmi su questo aspetto.
Uno dei compiti degli storici è quello di sforzarsi di capire la mentalità del passato, perché non ha senso interpretare la storia con l’odierna Weltanschauung, “visione del mondo”. Una certa visione della Storia, che si sofferma principalmente sulle questioni del razzismo e dell’imperialismo, si basa su una sorta di potere morale.
Per meglio dire, una certa morale condiziona il modo d’interpretare la Storia. Questo fa sì che l’interpretazione storica rispecchi una visione politica e divenga uno strumento di potere. Lo studio della Storia deve invece basarsi sul dubbio, sulla ricerca delle prove, sulla loro interpretazione razionale, e sulla capacità di fare autocritica, di cui bisogna dare dimostrazione quando ci si accorge di avere sbagliato, quando cioè le prove, o le nuove prove, sopravvenute, non giustificano ciò che si è detto. Le opinioni personali sulla Storia non devono influire sull’interpretazione storica al punto tale da reinterpretare la Storia secondo le proprie idee.
Nel caso della Storia romana, per esempio, decolonizzare significa restituire ai nativi la loro storia, liberandola dal pregiudizio romano-centrico. La storia di un popolo sottomesso non comincia con la Conquista. E la Conquista romana era in buona sostanza una pratica predatoria.
Fermo restando che, in passato, i massacri delle popolazioni indigene, il saccheggio delle loro risorse, la disumana tratta degli schiavi, non erano incidenti di percorso, ma il normale modus operandi dei Conquistatori di qualsiasi paese, in un tempo in cui chiunque si trovasse all’esterno delle città e non fosse un cittadino romano, o non godesse del diritto latino, era considerato come una persona senza diritti, che doveva sottomettersi se più debole, spontaneamente o con la forza. La mentalità dell’epoca era molto diversa dall’odierna sotto questo aspetto come sotto molti altri.
Fermo restando, inoltre, che la Conquista implicava spesso la trasformazione dei vinti in amici e alleati, e poi in cittadini romani, con tutto ciò che questo poteva significare in termini d’integrazione sociale. Non era foriera solo di stragi e ruberie, ma anche di civiltà e progresso economico, culturale, tecnico e scientifico. Là dove esisteva uno stato di barbarie, portava città, leggi scritte, stabilità politica, strade, acquedotti, terme, teatri, eccetera.
Certamente, anche questi aspetti devono essere considerati, se si vuole avere una visione oggettiva dei singoli processi ed eventi, e dell’esperienza storica complessiva rappresentata da Roma e dal suo impero.
Rimane il fatto che la Conquista era motivata fondamentalmente dal disegno d’impadronirsi di terre e risorse altrui. Si veda per esempio lo sbarco in Britannia tentato due volte da Giulio Cesare senza successo e propagandato dalla sua efficiente macchina della comunicazione come una grande impresa, paragonabile allo sbarco sulla Luna dei tempi moderni.
Cesare non era un visionario esploratore che aveva sfidato l’ignoto e scoperto una terra incognita, varcando l’Oceano (Canale della Manica), il confine occidentale del mondo allora conosciuto. Non era spinto dalla motivazione di Odisseo/Ulisse (“Fatti non foste a vivere come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza”, Dante Alighieri, La Divina Commedia, Inferno, Canto XXVI, v. 119), né dall’ideologia dell’imperialismo romano, che vedeva nella Conquista l’adempimento di una missione storica e di un dovere morale. Piuttosto, era spinto dalla bramosia d’impadronirsi di perle e metalli pregiati. Sotto questo aspetto, era una persona eticamente deprecabile, anche rispetto ai già non elevatissimi standard dell’epoca.
In disparte che la Britannia era una terra incognita solo per i Romani, che non vi erano mai stati, mentre non lo era affatto per i Britanni, che vi abitavano da tempo immemorabile, né per i Galli della Belgica, che avevano contatti e scambi regolari sia con i Britanni sia con le popolazioni di origine gallica della Britannia.
—–
Natale Barca è stato Visiting Scholar Researcher alla University of California, Berkeley, California, e Academic Visitor all’Istitute of Classical Studies della School of Advanced Study della University of London, Londra. È membro della Society for the Promotion of Roman Studies (Roman Society), Londra. Il focus delle sue pubblicazioni è la storia politica e militare della Roma tardo-repubblicana.