A guardarle con maggiore attenzione, le elezioni di domenica 12 giugno danno un quadro abbastanza chiaro della crisi dei partiti. Certo, si è trattato di un test parziale che ha coinvolto poco meno di mille comuni. Ma ci sono dati che preoccupano in vista delle prossime legislative: la fragilità delle leadership, l’instabilità delle coalizioni, la volatilità del voto e – soprattutto – la crescente sfiducia nella politica.
La realtà del 12 giugno è che hanno perso tutti. Non solo Salvini che ha bruciato il consenso della Lega nazionale e adesso rischia la segreteria, non solo Cinquestelle, partito praticamente estinto, ma anche Giorgia Meloni ed Enrico Letta. La leader di Fratelli d’Italia avrà pure surclassato la Lega, ma sul piano nazionale sembra ancora lontana da una percentuale in grado di aprirle sul serio le porte di Palazzo Chigi. Quanto al segretario del PD, ha un bel dirsi soddisfatto di guidare il “primo partito” italiano, ma il suo “campo largo” con il M5S adesso deve fare i conti con la crisi pentastellata.
La crisi del Movimento diventa così un caso da manuale di quella “politica liquida” che ha sostituito i vecchi partiti della Prima Repubblica. Cinquestelle è evaporato in meno di una legislatura, passando dal primato del 2018, quando sfiorò il 33 per cento, alle percentuali a una cifra di oggi.
Una situazione che sembra irreversibile. Al punto che non lo ha votato nemmeno il suo fondatore. Già, perché domenica scorsa, nel seggio 617 di Genova, tra gli otto voti al M5S conteggiati nella sezione non c’era quello di Grillo. Il comico era da giorni fuori città. Ed evidentemente non è ancora tornato, visto che il 16 giugno sul suo blog non c’era ancora una riga sulle elezioni.