Le democrazie vivono una vita tribolata in tutto il mondo. I sistemi democratici hanno la febbre alta. Rischiano perfino di crollare nelle loro roccaforti storiche: in America e in Europa. Le democrazie devono fare i conti all’esterno con le autocrazie (in particolare Russia e Cina) e all’interno con l’assalto dei movimenti populisti.
Il caso più eclatante sono gli Stati Uniti, il perno delle democrazie nel mondo. Il 6 gennaio 2021 il mondo visse con sgomento un fatto inaudito: migliaia di manifestanti assalirono il Congresso a Washington, tentando d’impedire l’insediamento di Joe Biden alla Casa Bianca. Gli estremisti di destra realizzarono l’assalto in consonanza con le accuse di “elezioni rubate” lanciate contro Biden e il Partito democratico da Donald Trump, quando ancora era presidente degli Stati Uniti.
Adesso una commissione d’inchiesta della Camera dei rappresentanti (a maggioranza democratica) ha stabilito che ci fu «un tentativo di colpo di Stato». Tuttavia non è detto che Trump si trasformi in un imputato per due motivi: 1) il Partito repubblicano ha la maggioranza al Senato; 2) lo stesso Biden è cauto perché metà dell’America ancora tifa per Trump.
Non a caso il presidente democratico sta cercando di dare delle risposte politiche ai problemi sollevati dal suo predecessore populista alla Casa Bianca. Anche Biden ha alzato la bandiera dell’”America first”, di “Prima l’America”. In politica estera ha attuato una politica muscolare verso gli avversari internazionali: più in chiave militare contro Vladimir Putin che ha invaso l’Ucraina, più in chiave diplomatica contro Xi Jinping che minaccia d’impossessarsi di Taiwan. Biden, in politica interna, invece ha cercato di sottrarre i consensi del ceto medio bianco impoverito che hanno fatto la fortuna del miliardario repubblicano. Il presidente degli Stati Uniti ha varato un maxi piano d’investimenti nelle infrastrutture e nello stato sociale (sanità e istruzione) per dare lavoro e assicurare assistenza al ceto medio bianco ipnotizzato dalle promesse populiste di Trump.
In America sono in discussione anche i diritti civili. La Corte suprema (a maggioranza repubblicana) ha cancellato il diritto all’aborto garantito a livello nazionale. Ora i vari Stati dell’Unione decidono se consentire alle donne di interrompere la gravidanza. Biden è a favore di una legge per ripristinare questo diritto, intanto ha firmato un ordine esecutivo per consentire alle donne di andare negli Stati nei quali l’aborto è ammesso. Si profila uno scontro tra governo e giustizia: «Non possiamo permettere a una Corte fuori controllo di limitare la libertà».
Il presidente americano deve affrontare pesanti sfide dall’esito incerto: il sostegno militare e finanziario all’Ucraina nella guerra contro la Russia, una forte inflazione con il prezzo della benzina alle stelle, il probabile arrivo di una recessione economica.
Le democrazie europee non stanno meglio, la crisi è forte. La rivolta populista, sovranista e anti sistema ha soffiato anche in tutta Europa. In Italia Mario Draghi, un tecnico, presiede un governo di unità nazionale dopo il fallimento del populismo del M5S di Grillo e della Lega di Salvini. Ma adesso l’ex presidente della Bce è con un piede dentro e con uno fuori dal governo perché i cinquestelle di Conte non gli hanno votato la fiducia al Senato. La disaffezione verso la politica è sempre più alta: un indice pericoloso è il costante calo dei votanti. Nei referendum sulla giustizia dello scorso 12 giugno si è toccato il fondo: appena il 20,9% degli elettori si è recato a votare e la consultazione popolare è stata annullata per mancanza del quorum (per la validità occorre almeno una partecipazione del 50% più uno degli aventi diritto). La differenza è enorme con il referendum sul divorzio: nel 1974 i votanti furono l’87,7%.
Gli altri paesi europei non stanno molto meglio. In Francia il presidente della Repubblica Emmanuel Macron è stato rieletto per un soffio ma non ha più la maggioranza in Parlamento per l’affermazione dei populismi di destra e di sinistra. Nel Regno Unito il premier Boris Johnson è stato costretto alle dimissioni dai conservatori, il suo stesso partito, dopo aver cavalcato per anni un pirotecnico populismo sovranista con il colpo riuscito della Brexit nel 2016. E ora è buio fitto sul futuro della Gran Bretagna preda della crisi politica ed economica.
La globalizzazione economica, fortemente voluta negli anni ‘Novanta dalla grande finanza e dalla sinistra (un grande sostenitore è stato Bill Clinton) ha fatto la fortuna dei grandi gruppi multinazionali, delocalizzando ad Est le produzioni risparmiando sul costo del lavoro e comprando le materie prime (in testa petrolio e gas) a prezzi bassi. Ci ha guadagnato la Cina (è diventata la seconda potenza economica mondiale dopo gli Usa) e gli ex paesi emergenti come l’India, il Brasile, la Corea del Sud, il Vietnam, Singapore.
Ma il ceto medio occidentale ha perso posti di lavoro e si è impoverito per la concorrenza dei lavoratori dell’Estremo oriente e dell’Europa orientale con bassissimi salari.
L’arrivo del Covid e della guerra in Ucraina sono stati i colpi finali alla globalizzazione: è entrata irrimediabilmente in crisi. Ma la globalizzazione si era già inceppata da prima, sia dal punto di vista economico sia da quello politico. Da qualche anno si cerca una risposta e un modello diverso, rispettoso dei diritti umani, sociali, economici dei cittadini. Aspettano risposte i lavoratori, i disoccupati, i precari, i pensionati. Una risposta dovrà arrivare presto: è in gioco la stessa esistenza delle democrazie. Oltre alle autocrazie, stanno avanzando anche le cosiddette “democrazie illiberali” (come in Ungheria). È una frana molto pericolosa.