Il vento populista è tornato a soffiare con forza. «Io credo che ci sia qualcosa che non funzioni». Draghi capisce subito che tira una brutta aria. La mattina di mercoledì 20 luglio propone al Senato di ricostruire «con coraggio, altruismo, credibilità» il patto di maggioranza sul quale nel febbraio 2021 sorse il suo governo di unità nazionale. Domanda più volte alla maggioranza: «Siete pronti?»
La Lega non ci sta. Chiede «un nuovo governo profondamente rinnovato» senza il Movimento 5 Stelle. È esattamente il contrario della strategia di unità nazionale riproposta da Draghi. Forza Italia converge sulla linea dura dopo qualche titubanza. Arriva il patatrac in serata. Leghisti e azzurri non partecipano al voto di fiducia a Palazzo Madama. I cinquestelle si dichiarano «presenti non votanti» per non far mancare il numero legale.
Draghi ottiene la fiducia con appena 95 sì (Pd, centristi e dimaiani) e 38 no (Fratelli d’Italia). È la crisi di governo. Il presidente del Consiglio giovedì 21 luglio va come previsto alla Camera e poi consegna le sue dimissioni a Sergio Mattarella. Resta in carica per il disbrigo degli affari correnti. Probabilmente, come prevede Enrico Letta, ci saranno le elezioni politiche anticipate in tempi brevi. Forse si voterà già ad ottobre mentre prosegue il dramma della guerra in Ucraina, l’inflazione impazza, il gas scarseggia e i contagi del Covid tornano a far paura anche in piena estate.
Il Senato vive una giornata caotica, piena di colpi di scena. Passa nel Carroccio la linea oltranzista e populista di Matteo Salvini. Il segretario della Lega è stanco del «teatrino imbarazzante» della politica perché decine di parlamentari «vogliono salvare la poltrona». Il Capitano stacca la spina all’esecutivo Draghi, vincendo le resistenze dell’ala riformista (Giorgetti, gli altri ministri, i governatori del Veneto Zaia, della Lombardia Fontana, del Friuli Venezia Giulia Fedriga).
Il vento populista spinge a rompere con Draghi. Salvini probabilmente cerca di recuperare la valanga di consensi persi e di parare la concorrenza a destra di Giorgia Meloni (l’opposizione ha fruttato una valanga di voti a Fratelli d’Italia, ora accreditati come primo partito italiano nei sondaggi elettorali). La vicenda, però, ricorda la bellicosa ed infelice impresa del Papeete: Salvini nell’estate del 2019 staccò la spina al Conte uno, il governo con i cinquestelle nel quale era ministro dell’Interno. L’esecutivo grillo-leghista cadde ma non ci furono le elezioni politiche anticipate perché nacque il Conte due, un esecutivo tra cinquestelle e Pd.
Il vento populista l’aveva sollevato in precedenza Giuseppe Conte. Il presidente cinquestelle aveva innescato la crisi di governo già la scorsa settimana dicendo basta con «le umiliazioni». Ora rincara contro Draghi: parla di «insulti» ricevuti, «siamo stati messi alla porta». I senatori grillini non avevano partecipato al voto di fiducia al Senato per approvare il decreto legge Aiuti. Draghi si era dimesso ma il presidente della Repubblica aveva respinto le dimissioni rinviandolo in Parlamento. Tuttavia l’esito della verifica al Senato del 20 luglio è stato un disastro.
Conte per la seconda volta rifiuta di votare la fiducia. Il presidente pentastellato ha un problema analogo a Salvini, anzi più grave. Il M5S si è spappolato. Ha perso i due terzi del 32% dei voti ottenuti nelle elezioni politiche del 2018. Non solo. Luigi Di Maio, ministro degli Esteri ed ex capo politico dei cinquestelle, gli ha voltato le spalle.
Ha abbandonato il populismo e il sovranismo. Ha realizzato una clamorosa scissione in nome della responsabilità e di una netta linea riformista. Ha fondato “Insieme per il futuro” e al nuovo partito hanno aderito oltre 60 parlamentari ex grillini. Ora è partita una dura concorrenza contro Conte.
La stima verso Draghi è universale con l’eccezione di Russia e Cina. In favore delle capacità del tecnico Draghi si è speso un ventaglio di forze vastissimo: i governi degli Stati Uniti ed europei. Il Vaticano e la grande finanza internazionale. Le imprese e i sindacati italiani. Quasi 2.000 sindaci della Penisola hanno precisato di volerlo a Palazzo Chigi. Alcuni gruppi della borghesia romana hanno manifestato perfino in piazza. Finanche un gruppo di neuroscienziati ha firmato un appello perché Draghi «continui» a governare. Anche ingegneri e psichiatri hanno firmato ma non sono stati capiti e ascoltati dal Palazzo. Non è servito a niente.
Per ora l’ex presidente della Bce sembra intenzionato a tirarsi da parte. Ma le elezioni politiche si avvicinano e in molti pensano e preparano un partito per Draghi.