«È il tempo che misura gli uomini, non gli uomini che misurano il tempo». Niente di più crudele. Niente di più vero. Ricordi, emozioni, sensazioni, sentimenti, pensieri, e la vita che corre inesorabile nel ticchettio delle lancette, in un turbinio di millesimi, centesimi, secondi, e minuti.
Nel nostro caso sono novanta, per la precisione. Pochi, tanti, dipende. Indimenticabili, eterni, questo è sicuro. Sono qui, fissi nella mente, si muovono davanti ai nostri occhi, e ci raccontano di una storia che ci appartiene, che ci rende orgogliosi, che ci fa sentire italiani.
5 luglio 1982, ore 17:15, incontro di calcio Italia- Brasile, Stadio Sarrià di Barcellona. Pieno, anzi strapieno. Un catino di cemento armato, ormai fatiscente che costruito nel 1922 mostra, impietoso, i segni dell’età, di un’evidentissima inadeguatezza. 45.000 spettatori accaldati e assiepati come sardine in scatola attendono l’inizio della partita in modo differente, quasi opposto.
Da una parte i brasiliani allegri, festanti, impazienti, scatenati nella coloratissima “torcida brasilera” che cantano e ballano come se fosse una festa, un saggio di samba, una sfilata al carnevale di Rio. Dall’altra parte ci siamo noi: silenziosi, contratti, preoccupati, fuori posto, come il ragionier Ugo Fantozzi alla cena di gran gala del supermegadirettoregalattico.
Attenti ad evitare la figuraccia. La goleada sembra lì, proprio lì, dietro l’angolo in quei 110 metri per 70 che delimitano il campo di gioco. I giornali sportivi italiani (Corriere dello Sport in primis) sono già rassegnati ad una sconfitta già scritta e soprattutto già vista come nella finale di Messico 1970, quando il leggendario Pelé, ormai a fine carriera, strapazzò per 4-1 la Nazionale di campionissimi del calibro di Riva, Rivera, Mazzola e Boninsegna. Allora, dopo lo sbarco degli Azzurri a Fiumicino, al C.T. Ferruccio Valcareggi vennero riservati pomodori, sberleffi e pernacchie. Dopo dodici anni esatti l’epilogo per Enzo Bearzot sembra il medesimo.
Sì è vero dopo un girone sottotono, semi disastroso e passato grazie ad una clamorosa papera del portiere del Camerun, abbiamo battuto, dominando il gioco, l’Argentina dell’astro nascente Diego Armando Maradona, ma qui oggi c’è quello che è considerato il Brasile più forte di tutti i tempi, quello con in campo l’erede proprio di Pelé, Arthur Antunes Coimbra detto Zico, il Galinho, e quel ricciolino biondo e strafottente dal passo regale che addirittura è soprannominato “Il Divino”.
A vederli lì, al centro del campo, i nostri dritti sugli attenti durante l’inno di Mameli vestiti candidamente della tuta bianca Le Coq sportif sembrano eleganti e perfette vittime sacrificali al dio del calcio che anche questa volta sembra strizzare l’occhio al futebol portoghese, la lingua dell’allegria, del divertimento, dello spettacolo.
Esagerato ed estremo come solo quello dei brasiliani sa essere, ai limiti del lezioso, dell’irritante, dell’inutile. In mezzo a tutto questo vortice di colori, di grida, di adrenalina, di sudore, di storia, di noi, c’è lui. Il nostro portiere, il nostro capitano, Dino Zoff, maglia grigia d’ordinanza e guanti Uhlsport neri con palmi rossi, in omaggio alla Spagna.
È fermo lì, in mezzo a centrocampo e scruta, attentamente, il cielo. Sta studiando qualcosa.
Ha, infatti, notato che il sole è ancora alto, adesso non da problemi agli occhi ma nel secondo tempo, verso le 18, sarà tutta un’altra storia, calerà di brutto e, a quel punto, sì che sarà temibile e fastidioso.
Si rischiano brutte figure in quelle condizioni, soprattutto per i numeri uno. Un segno d’assenso tra sé e sé, sa cosa fare: se vincerà il sorteggio, il testa o croce con il capitano brasiliano Socrates, prenderà il campo controsole così nella seconda frazione ad essere accecato dai raggi solari sarà il suo collega, Waldir Peres.
Una dote, un piccolo grande vantaggio da poter giocare al momento giusto, quando la partita sarà ancora aperta, ancora in bilico. Un’astuzia dettata dalla sua tradizione contadina, dalla sua amata terra friulana che lo ha cresciuto con valori semplici e puri tramandati da padre a nipote. Primo tra tutti: il rispetto della natura, dei suoi tempi, dell’ordine delle cose. Friuli, terra di confine, di guerra, divisa tra Italia, Austria e l’ex Jugoslavia. I suoi figli, da oltre cento anni, sono temprati dalla necessità, abituati al sacrificio, al dovere. Così come alla difesa di una caserma, di un valico di montagna, della propria casa, della propria famiglia.
In questo pomeriggio torrido con la temperatura a 40°, il friulano Zoff è chiamato a difendere qualcosa di molto simile ad una linea di confine che divide due nazioni in lotta. È una semplice linea di porta, lunga sette metri e 32 centimetri, di gesso bianco che più semplicemente divide la vittoria dalla sconfitta, la gloria dall’oblio, il protagonista dalla comparsa. Se il risultato sarà incerto fino all’ultimo quello che potrà fare la differenza sarà la concentrazione, la capacità di previsione, la testa, più che i piedi e le mani.
Il lancio della monetina va proprio come vuole Zoff, palla al Brasile e campo all’Italia. Dino sorride, e comincia a correre per arrivare, velocemente, tra i pali. L’andatura è fluida, composta e lo sguardo sembra, adesso, più sicuro. La sorte, come spesso accade, può anche sorridere ai più volenterosi e non sempre ai più forti. Una cosa è certa: ce la possiamo giocare. Stadio Sarria, secondo tempo, minuto 89: quello che sta succedendo sul rettangolo di gioco è impensabile, incredibile, imponderabile.
Imprevisto. Italia-Brasile: 3-2. Nella terra di Manolete e Dominguin, questa volta è il toro a irridere il matador, è il toro che sta rubando scena, applausi, e gli olè dei presenti. Una corrida al contrario. Ma non è ancora finita perché il torero stanco, livido, umiliato sta sferrando un altro disperato assalto.
L’ultimo. Lato sinistro del campo, sotto la tribuna dove siedono le autorità, poco più di 30 metri dalla porta azzurra, sulla palla Eder, il mancino di Dio, è pronto a scodellare in area il pallone decisivo. Quello che potrebbe regalare il pareggio al Brasile, un pareggio che significherebbe il passaggio del turno in virtù della migliore differenza reti.
Il gol di Falcao del 2 a 2 è stato, infatti, vanificato dalla straordinaria tripletta di Paolo Rossi, ritornato proprio oggi, nella gara più importante, il Pablito del 1978, quello del Mondiale argentino, quello che fece innamorare il mondo intero.
L’arbitro Klein fischia, Eder colpisce di interno sinistro la sfera disegnando nell’aria una traiettoria potente, precisa, perfetta. Il pallone Tango, marchiato Adidas, sembra telecomandato e finisce dove vuole lui, sul secondo palo, nell’unico spazio lasciato vuoto dalla nostra difesa, è lì che Oscar, lo statuario centrale difensivo brasiliano di 1,87 cm stacca sopra tutti e lo colpisce pieno indirizzandolo sul secondo palo con una terribile frustata dall’alto verso il basso. Tutto avviene così rapidamente che lo stesso telecronista italiano, il grande Nando Martellini, sbaglia il nome del colpitore di testa.
Chi non sbaglia, invece, è proprio Dino Zoff, classe 1942, di Mariano del Friuli, in volo plastico verso l’angolo basso a sinistra della porta. Un gesto istintivo, automatico, verso quella fatidica linea bianca che non deve essere violata, che deve essere difesa fino all’ultimo respiro, fino all’ultimo tuffo. Durante il traversone di Eder aveva fatto un passo laterale seguendo la lunga traiettoria del pallone. Ora le sue mani come artigli cercano e trovano il pallone, lo smorzano prima e lo sbattono poi contro il terreno, proprio a un centimetro dalla linea di porta.
Cala il silenzio, lo stadio, di colpo, ammutolisce, i brasiliani, con poca convinzione, alzano le braccia al cielo per condizionare arbitro e guardialinee. Chissà, magari, ci cascano. È a quel punto che Zoff con la palla stretta, saldamente, sotto il braccio destro si alza in piedi di scatto e regala alla storia quattro parole che sanno di trionfo: «No, non è entrata» scandito con un netto movimento del dito a pochi metri dal viso dell’arbitro Klein che, senza esito alcuno, fa riprendere il gioco. No, non è entrata. L’Italia è salva, il confine è stato difeso, lo straniero non è passato.
Ora ci aspetta in semifinale la Polonia di Boniek, poi in finale sicuramente i tedeschi, quelli arrivano sempre. Ma noi abbiamo Paolo Rossi, Marco Tardelli, Bruno Conti, Gaetano Scirea.
Abbiamo Dino Zoff, le sue mani, che dopo ben quarantaquattro anni alzeranno la nostra terza Coppa del Mondo nel cielo di Madrid alla presenza di re, principi, cancellieri e presidenti della Repubblica.
È il tempo che misura gli uomini non gli uomini che misurano il tempo. Così può anche capitare che a 40 anni di distanza da quella meravigliosa vittoria in una caldissima, afosissima, umidissima giornata romana si vada a trovare amici in una delle località più rinomate del litorale laziale, Sabaudia. Un ottimo gelato allo zabaione e alla nocciola, quattro chiacchiere sulle prossime elezioni politiche e poi il ritorno all’hotel.
Ed è qui che avviene l’inaspettato, l’imprevisto non come al Sarrià si intende, ma la sorpresa è tanta e l’emozione fa battere forte al cuore. Davanti a me, di spalle, in tenuta sportiva proprio lui, Dino Zoff. Abbronzato, sorridente, gentilissimo, in splendida forma.
Gli parlo, accompagnata da Aldo Rossi Merighi, della mostra Un Secolo d’Azzurro sulla storia dei primi 120 anni della nostra Nazionale di calcio, che promuoviamo in tutta Italia da quattro anni, e gli si illuminano gli occhi, ci invita a proseguire questa iniziativa così importante per mantenere e tramandare la tradizione del nostro calcio.
Al momento di salutarlo, gli chiedo una foto ricordo e lui, con un balzo felino, si alza in piedi:
«La foto la facciamo da sportivi». Ecco chi è Dino Zoff, l’uomo del Friuli. Poche parole, valori semplici, una linea di porta da difendere. A quaranta come a ottant’anni, perché questo è lo sport, questo è il calcio, questa è la vita.