Sono passati esattamente dieci anni dalla firma del “Piano Sulcis”: 800 milioni di fondi pubblici per creare 4.500 posti di lavoro nella provincia più povera d’Italia. Lo “storico accordo” arrivò dopo la “rivolta” di Carbonia e i violenti scontri con la polizia da parte della popolazione costretta a fare i conti con la spaventosa crisi economica del territorio.
A novembre del 2012 le miniere dismesse da tempo sono per lo più in stato di abbandono, ma anche il sogno dell’alluminio sembra al tramonto e una grande fabbrica come l’Alcoa sta per chiudere i battenti. Operai, disoccupati e abitanti del Sulcis Iglesiente si riuniscono allora in un luogo simbolo di Carbonia, il piazzale della miniera Serbariu, e danno vita a una dura protesta contro i due ministri del governo Monti arrivati a promettere fondi pubblici e posti di lavoro. Gli scontri dei manifestanti con la polizia sono durissimi e si concluderanno con 17 denunce.
I ministri (Corrado Passera e Fabrizio Barca) verranno portati di peso e messi in fretta e furia sull’elicottero per rientrare a Roma.
Comunque sia, il protocollo viene firmato. Ci sono 805 milioni di euro, c’è la fiscalità di vantaggio per le attività economiche sul territorio. Le fabbriche esistenti dovrebbero essere fuori pericolo e vengono promessi 4.500 nuovi posti di lavoro.
Sembra una cosa seria. La classe politica nazionale e locale parla di “accordo storico”. Ma adesso, dieci anni dopo, il bilancio del Piano Sulcis risulta fallimentare. Degli 800 milioni di euro stanziati ne sono stati impiegati poco più di 200. Un quarto del totale.
Alla fine ha funzionato solo la fiscalità di vantaggio che ha permesso a commercianti e piccoli imprenditori di resistere pagando meno tasse. In totale stiamo parlando di circa 120 milioni di sconti. Ma nel frattempo il territorio ha perso altri abitanti e nuove attività non se ne sono viste.
I progetti sono partiti a rilento. Poi, dal 2018 è arrivata la paralisi ed è calato il silenzio. E così, dieci anni dopo la rivolta degli abitanti, il Sulcis Iglesiente resta lo specchio del disastro politico sardo e del fallimento di un’intera classe dirigente. Fallimento documentato dai tanti soldi che ben tre amministrazioni regionali di diverso colore non sono state capaci di spendere. E quindi non è proprio un caso se il 25 settembre scorso un elettore sardo su due non è andato a votare. Con un crollo dell’affluenza di ben 13 punti rispetto al 2018.