La diaspora italiana è un fenomeno storico su larga scala, che ha coinvolto milioni di persone per circa un secolo e mezzo. Storicamente, si possono identificare tre grandi ondate. Una prima massiccia ondata è quella iniziata nel 1861 con l’unità d’Italia e terminarono nel 1920 con l’ascesa del fascismo italiano. Una seconda ondata iniziò dopo la fine della seconda guerra mondiale e terminò intorno agli anni ‘70, segnando, tra le altre cose, la transizione da paese di emigrazione a paese di immigrazione. Una terza ondata, ancora in corso, è iniziata nel 2007, quando il flusso di emigrazione è tornato a crescere in modo straordinario, soprattutto tra i giovani.
Tali movimenti migratori sono talmente vasti e variegati, per epoche, per condizioni sociali, per ragioni e per regioni di partenza e di arrivo, che è complicato persino fornire stime, sia pure approssimative, di quanti italiani abbiano lasciato il Paese in modo permanente. Ufficialmente, al 31 dicembre 2021, i cittadini italiani che vivono fuori dal Paese sono più di 5,8 milioni e negli ultimi 15 anni il loro numero è aumentato di circa il 60%. Ma questi dati, basati sulle iscrizioni all’anagrafe degli italiani residenti all’estero (AIRE), offrono soltanto un punto di vista parziale di questo grande fenomeno. Diversi istituti e autori hanno tentato di fornire stime che comprendessero le precedenti ondate e quanti hanno preferito o hanno dovuto rinunciare alla cittadinanza italiana. Nel 1978, Russel King stimò che circa 25 milioni di italiani risiedessero fuori dall’Italia. In un suo libro pubblicato nel 2000, la storica statunitense Donna Rae Gabaccia stima che dal 1800 più di 27 milioni di persone abbiano lasciato l’Italia e più della metà siano rientrate in patria. Nel 1994, il ministero degli Affari Esteri italiano ha stimato tra 60 e 70 milioni le persone di origine italiana che risiedono all’estero.
Bisogna poi considerare che, oltre alla migrazione internazionale, l’Italia ha conosciuto grandi movimenti migratori interni, principalmente dalle campagne verso le città e dalle regioni del Sud verso quelle del Nord, con un significativo impatto culturale, artistico, economico, sociale e politico sulla vita e sullo sviluppo del Paese.
L’associazionismo degli italiani emigrati nel mondo è espressione, portavoce e specchio di questa diaspora e pertanto è tutt’altro omogeneo e immutabile. Esso da sempre cerca soluzioni alle diverse e continue richieste provenienti da contesti e periodi storico-politici differenti. Di qui l’interesse di una ricerca volta a comprenderne le più recenti trasformazioni.
Ma perché utilizzare, per la migrazione italiana, il termine “diaspora”? Se, in senso stretto, diaspora è soprattutto quella degli ebrei che vivono fuori dalla Palestina, o anche quelle cinese e armena, in senso più ampio, questo termine sta ad indicare, sì la dispersione di una parte di una popolazione al di fuori degli originari confini nazionali, ma soprattutto la costruzione e il mantenimento di legami, tra questa parte di popolazione e il paese di origine. In altre parole, quell’agire collettivo, finalizzato al mantenimento di un’identità e di una memoria legate al paese d’origine.
Talvolta, tali legami si costruiscono e rafforzano nei paesi di arrivo, concorrendo a riprodurre pratiche, abitudini, gusti e linguaggi che, pur ispirati al riferimento culturale comune della terra d’origine, se ne distaccano assumendo una forma propria e peculiare. Trasmessi di generazione in generazione, questi legami e le loro forme di organizzazione coinvolgono persone che non sono mai realmente “espatriate”, nel senso che a volte non hanno nemmeno avuto l’opportunità di visitare il paese da cui provenivano i loro genitori e antenati. Anche se a fasi alterne e con modalità contraddittorie, queste forme di organizzazione possono essere promosse, incentivate, regolate – in una parola “istituzionalizzate” – dalle istanze governative del paese di origine.
Nel caso dell’Italia, ad esempio, un ruolo cruciale in questo senso è svolto, oltre che da un sistema di rappresentanza tra i più articolati al mondo (Comites, CGIE, legge elettorale), soprattutto da una politica della cittadinanza ispirata, fin da prima dell’epoca fascista, al principio dello Ius sanguinis, che se da un lato sfavorisce l’inclusione degli immigrati stranieri in Italia, dall’altro è particolarmente favorevole agli emigrati italiani e ai loro discendenti, non soltanto perché rende difficile la perdita della nazionalità italiana, ma anche perché ne consente la riacquisizione e il riconoscimento lungo l’arco di più generazioni.
Sotto questa luce, la storia, la vita, il propagarsi, la ragione stessa d’essere dell’associazionismo nel mondo costituisce un “pilastro” della diaspora italiana.
È per questo che il FAIM, in collaborazione con le sue associazioni aderenti, tra le quali l’Istituto Fernando Santi, e con il sostegno del CGIE, ha realizzato un impegnativo lavoro di ricerca sul campo, di riflessioni e di raccolta di documentazione, i cui risultati sono confluiti nel libro L’Associazionismo dell’emigrazione italiana in transizione recentemente pubblicato dall’Editrice Futura (35 euro).
Il libro, di 323 pagine, si articola in tre sezioni. La prima, realizzata da Carlo Caldarini, Grazia Moffa e Marco Di Gregorio, riassume i risultati dell’indagine per questionari, che ha coinvolto circa 300 associazioni in 27 diversi paesi ed elaborata. Questa parte della ricerca comprende anche delle interviste ad alcuni testimoni qualificati, rappresentati di associazioni italiane negli Stati Uniti, in Canada a in Argentina.
La seconda sezione, realizzata da Cristiano Caltabiano, è basata su alcuni “gruppi focus” con dirigenti di associazioni in diversi paesi europei e americani.
La terza sezione, curata da Massimo Angrisano, documenta i lavori di riorganizzazione delle reti associative degli italiani all’estero negli ultimi 15 anni.
Questo lavoro mette in luce che il ruolo dell’associazionismo degli italiani nel mondo non può essere ricondotto alla sola sfera nostalgica, come talvolta si può essere portati a credere. Emergono tuttavia due punti critici principali. Il primo riguarda la sfiducia delle associazioni verso le istituzioni italiane e la sensazione diffusa di “scollamento”. Il secondo punto critico è la difficoltà nell’attrarre l’interesse delle nuove generazioni, che siano i discendenti degli italiani emigrati all’estero o i giovani che hanno lasciato l’Italia in questi ultimi anni.
Se si intende l’associazionismo nel suo carattere di rifugio e sostegno per chi vive in terra straniera, entrambi i fenomeni possono essere interpretati anche “positivamente”, come il segno di una migliore, naturale, e quindi persino inevitabile, integrazione nei paesi ospitanti.
I risultati della ricerca mostrano inoltre i segni di un conflitto, tipico delle fasi di transizione, tra il desiderio di salvaguardare un’identità e un patrimonio, da un lato, e la crescita di un sentimento cosmopolita, dall’altro. In tutti i casi, sembra evidente che si tratti di un allentamento dei legami – siano essi politici, istituzionali, culturali o altro – con il paese d’origine e quindi, in qualche misura, di una fessura nelle relazioni di diaspora o della riconfigurazione della comunità transnazionale in forme inedite e lontane dalle istituzioni tradizionali. Questa è un’ipotesi, che emerge con forza dalla ricerca, e che crediamo meriti ulteriori indagini.