Gli occhiali a goccia, quelli di sempre. Stempiato, un po’ appesantito, vaghissima somiglianza con il Matteo Messina Denaro giovane immortalato in una delle rarissime fotografie disponibili. Anche per Totò Riina e Bernardo Provenzano è stato così. L’ultimo dei cosiddetti “stragisti” ancora libero.
Di quel feroce gruppo di “corleonesi” che a colpi di kalashnikov e bombe ha sterminato i boss della Cosa Nostra palermitana, non c’era più nessuno: Riina e Provenzano, morti in carcere. Leoluca Bagarella ancora al 41/bis. Nitto Santapaola, il catanese, praticamente dimenticato. Gli hanno ammazzato la moglie, ha recepito il “messaggio”, ne ha a sua volta inviato un altro. Quello che rimane della sua famiglia per quel silenzio impenetrabile, è salva.
Poi lui, Messina Denaro, “U siccu”, figlio di Francesco, anche lui Cosa Nostra, non di Corleone ma di Castelvetrano, paese nel trapanese che richiama in automatico Salvatore Giuliano, il bandito non mafioso, ma che dalla Cosa Nostra viene usato e poi “venduto”, quando la sua funzione e utilità sono finiti.
“Onore”, tradimenti, silenzi, omertà… Una quantità di “si dice”, sul conto di “U siccu”. La sua assicurazione per la latitanza, si diceva fino a ieri, costituita dalle carte custodite da Riina, nella cassaforte della villa dove viveva con la famiglia vicino Palermo. Quel “covo” lasciato incustodito e non perquisito giusto il tempo per “ripulirlo”. Quali carte? Anche qui, si è nel “si dice”: documenti compromettenti per politici e imprenditori, e perfino l’originale di quel “papello” che sarebbe il patto sottoscritto tra Corleonesi e pezzi delle istituzioni per garantire impunità e condizioni meno gravose in carcere per i boss, in cambio di un “allentamento” dell’offensiva stragista dei Corleonesi.
Peccato che molti conti non tornino: questa storia del “papello” viene fuori da personaggi che non sono esattamente bocche della verità, come l’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino e suo figlio Massimo; Riina e Provenzano (e quest’ultimo era ormai ridotto a un vegetale) sono comunque morti al 41/bis; sempre al 41/bis si trovano Bagarella, Santapaola, gli altri boss; ci finirà anche Messina Denaro… Hanno tutti ergastoli sulle spalle, più d’uno.
Carte e documenti che non hanno evitato che Riina venisse arrestato. «Me l’hanno tradito!», ha inveito Antonietta Bagarella, sorella di Leoluca. Chi poteva vendere l’amato marito? Nomi non ne ha fatti, ma non è fuori dal mondo che la “dritta” sia venuta da quel Provenzano che non era poi molto d’accordo nella gestione di Riina, prendere frontalmente lo Stato e sfidarlo («Per fare la pace, bisogna prima fare la guerra»).
Dopo le stragi a Capaci (Giovanni Falcone), e a via D’Amelio (Paolo Borsellino), da Roma esigono che sia fatto qualcosa; e allora ecco che qualcosa si fa. Vogliono Riina? E i carabinieri dei Reparti Operativi Speciali guidati dal generale Mario Mori si attivano. Ora è chiaro che sapere dove si nasconde un boss della Cosa Nostra lo sanno quelli che fanno parte della cosca, non persone perbene. È altrettanto evidente che se vuoi un favore, devi essere pronto a farne un altro. Do ut des lo dicevano i latini e significa: «Io do’ affinché tu dia». Queste cose sono il pane quotidiano negli uffici di polizia e nelle stazioni dei carabinieri. E di certo non si fanno verbali o “papelli” che dir si voglia.
Matteo Messina Denaro, per tornare all’oggi? Se mai “papello” c’è, c’è stato, visto che lo hanno arrestato, dev’essere scaduto. Ma prima: chi è? Di chi si parla? Il “capo dei capi” come si dice? L’erede di Riina? Pensarlo è una grande ingenuità, dice Salvatore Lupo, docente di storia contemporanea all’università di Palermo, uno dei massimi conoscitori del fenomeno mafioso.
Va controcorrente, il professor Lupo; per questo è bene ascoltarlo. Sostiene che «Cosa Nostra non ha più bisogno di avere un capo, ammesso che abbia mai avuto questa esigenza in passato e ammesso che Riina lo fosse fino in fondo. In realtà la mafia non è mai stata una organizzazione centralizzata: è semmai un fenomeno che possiamo definire territoriale e federale. Lo è diventata semmai per un periodo, quando il gruppo dei corleonesi aveva una potenza militare schiacciante che era una minaccia per gli altri gruppi. Ma quella minaccia non esiste più da decine di anni e quindi è solo un grande abbaglio ritenere che Cosa nostra abbia un capo dei capi».
Lupo insomma, come a suo tempo Leonardo Sciascia, contesta la visione della Cosa Nostra come Piovra, e opta per la figura dell’Idra. Per quel che riguarda Messina Denaro Lupo esclude che sia il nuovo Riina; la sua cattura «è sicuramente frutto di un lavoro molto complicato, ma non arriva più in un momento il cui la mafia tiene lo Stato per la gola. Diciamo che Messina Denaro non è palermitano come erano i corleonesi che si erano affermati a Palermo com’è tradizione per questo tipo di mafia. È trapanese, lì c’è una grande mafia finanziaria e immagino che avrà un grande peso in questo senso e nel suo territorio».
Quanto alle coperture: «La rete in questi anni è stata sicuramente efficace, le indagini ci diranno com’era articolata. Però si deve ricordare la logica della federazione mafiosa: Messina Denaro avrà avuto solidarietà dagli altri gruppi territoriali e questo è sicuramente un elemento significativo, perché i suoi legami hanno resistito in una fase storica in cui la centralizzazione di Cosa nostra si è disgregata. In quest’ottica la latitanza di un boss è particolare: lascia tracce, ma serve anche a rinnovare sistemi di complicità e coperture tra i gruppi. Dietro alla sua vicenda trentennale però non vedo alcun complotto o scenario particolare: anche gli altri avevano coperture che hanno resistito per un tempo più o meno lungo, ma poi sono cadute. E ora è toccato a lui: su 150 o 300 boss catturati ce ne deve essere per forza uno che resta per ultimo. Poi lui era malato, no? Si sapeva da tempo. Questi grandi vecchi prima o poi hanno il loro declino».
Naturalmente non si deve mai dimenticare che si parla di un boss mafioso tra i più crudeli e spietati: responsabile in prima persona di stragi e delitti di cui forse perfino si perde il numero; e valga per tutti l’aver anche lui le mani sporche del sangue del povero Giuseppe Di Matteo: un ragazzino “colpevole” di essere figlio di un mafioso che collabora con la giustizia; Giuseppe viene sequestrato, per mesi costretto a vivere incatenato in una buca; infine strangolato e il suo corpo sciolto nell’acido. Aveva appena dodici anni.
La “dietrologia” è quanto di più lontano da chi scrive. Accumulare i dati più diversi e cercare di unirli come pezzi di un puzzle quasi sempre è fuorviante, diventa un qualcosa di labirintico nel quale ci si perde. Meglio scremare, scarnificare, andare all’essenza. Tuttavia senza voler costruire “castelli” col senno di oggi, non si perde tempo nel riascoltare una trasmissione condotta da Massimo Giletti per la sua trasmissione Non è l’Arena su La 7. Il 6 novembre scorso Giletti realizza una lunga intervista, nell’ambito di uno speciale sulla Cosa Nostra, a Salvatore Baiardo, gelataio piemontese di origine siciliane che agli inizi degli anni ’90 aiuta i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano nella loro latitanza.
Alcune frasi in quell’intervista colpiscono. Su Messina Denaro, la sua latitanza, la possibilità che potesse essere arrestato, Baiardo dice: «…potrebbe succedere come una vecchia trattativa, come è stata fatta nel ’93… Magari servirà ancora … come infatti non è che lo stato lo stia prendendo… Presumo che sia una resa sua».
Nel suo dire, non dire, Baiardo nega di aver conosciuto Messina Denaro anche se vi sono atti che dicono che li hanno visti assieme a Riccione in una famosa gioielleria. Alla domanda sull’aspetto del boss risponde: «Tutti invecchiamo…sono passati 30 anni… anche lei non è più il Giletti di una volta, neanche il Baiardo è quello di una volta…Io posso dire che è una brava persona, ma lei dice: ‘Con tutto ciò che hanno fatto?’. Ma io chi sono per giudicare loro? L’hanno fatto realmente? Non lo hanno fatto? Io posso giudicare il comportamento che hanno avuto nei miei confronti… e per me sono delle degne persone, delle brave persone».
Baiardo dice poi che Messina Denaro è malato, potrebbe consegnarsi o essere consegnato, o potrebbe essere arrestato entro Natale. Di fatto anticipa l’arresto di solo un paio di settimane. Ripetiamolo: nessuna dietrologia. Però quella trasmissione, sia pure con le debite molle, è da riascoltare. Con attenzione e cautela: qualcuno già allora parlava; e qualcuno ascoltava.
Infine, un particolare: la clinica “La Maddalena” a Palermo, dove Messina Denaro viene catturato è a via San Lorenzo n. 3127d. La sede palermitana della Direzione Investigativa Antimafia, è a via San Lorenzo n.1. Appena cinquecento metri di distanza. Non significa nulla. Significa tutto.