Matteo Lepore avanza una proposta radicale: cambiare nome del Pd. Il sindaco di Bologna pensa a un nome che dia già l’idea di una nuova identità di sinistra: Partito Democratico e del Lavoro. L’ex ministro Andrea Orlando è d’accordo, anzi è ancora più netto: «Mi piacerebbe chiamarlo Partito del Lavoro». Il vice segretario del partito Provenzano propone di sottoporre l’idea agli iscritti.
Dei quattro candidati alla segreteria solo Elly Schlein non esclude la proposta di cambiare nome del Pd. Stefano Bonaccini (in testa ai sondaggi) e Gianni Cuperlo sono scettici. Paola De Micheli è contraria.
All’assemblea costituente dei democratici è emerso chiaramente: la maggioranza vuole un “nuovo Pd” ma non vuole cambiare nome. La partita si giocherà dopo il 26 febbraio, cioè dopo le elezioni primarie per scegliere il nuovo segretario.
Se al congresso costituente vincerà Bonaccini non ci sarà il cambio di nome, se vincerà Elly Schlein (la seconda dei favoriti dopo il presidente della regione Emilia-Romagna), allora si apriranno delle possibilità. Un fatto è sicuro: Speranza e Bersani decisi a confluire da Articolo 1 nel Pd (erano usciti con una scissione assieme a D’Alema) sarebbero favorevoli alla svolta.
Il Pd è crollato al 19% dei voti nelle elezioni politiche dello scorso settembre. La disfatta di Enrico Letta ha aperto le porte al governo di destra-centro guidato da Giorgia Meloni. E ora il Partito Democratico starebbe ancora peggio: i sondaggi elettorali lo danno appena al 16%, superato anche dal M5S di Conte quotato oltre il 18%.
Per scongiurare l’annientamento Lepore, Provenzano e Orlando puntano a recuperare l’anima di sinistra cambiando nome, programmi e identità. Puntando a lottare per la difesa dei diritti, a combattere contro le disuguaglianze sociali e civili. Cuperlo è a favore di una svolta a sinistra ma senza cambiare nome. Bonaccini sostiene invece una linea riformista ma senza toccare il nome perché, dice, non ha sentito questa richiesta dagli iscritti e dai militanti.
Si ricomincia da capo. Al partito si ripropone l’ennesima metamorfosi dopo quelle effettuate in seguito allo scioglimento del Pci nel 1991. Prima Occhetto diede vita al Pds: durò 7 anni, dal 1991 al 1998. D’Alema varò i Ds: visse 9 anni, dal 1998 al 2007. Infine Veltroni fondò il Pd: è in pista dal 2007, frutto della fusione con gli ex Dc radunati nella Margherita.
La crisi nel Pd è aperta da anni. Matteo Renzi nel 2019, dopo una grave sconfitta elettorale, organizzò una scissione. Ora dopo poco più di 15 anni di vita c’è sul tavolo una nuova travagliata metamorfosi politica. Qualcosa non ha funzionato. Il Pd ha patito una identità politica confusa: un po’ di sinistra, un po’ movimentista, un po’ ecopacifista, un po’ centrista, un po’ socialista, un po’ postcomunista, un po’ kennedyana, un po’ liberaldemocratica. Dall’inizio, però, ha prevalso l’identità liberaldemocratica predicata da Carlo De Benedetti e Eugenio Scalfari. Non ha funzionato. La scelta liberaldemocratica ha sradicato le radici di sinistra e popolari del partito. Massimo D’Alema già nel 2008 sentenziò: «Il Pd è un amalgama fin qui mal riuscito». Il Pd resta “un amalgama mal riuscito”.