A tre anni dall’abbandono dell’Unione Europea, l’Inghilterra deve fare i conti con il fallimento della Brexit. Alle prese con un’inflazione a due cifre, un calo dell’export, una crisi politico-sociale senza precedenti e una raffica di scioperi, il Regno Unito è in recessione. Secondo l’ultimo report del Fondo Monetario, tra i 7 Paesi più avanzati al mondo, è quello che ha subito la maggiore contrazione economica. Anzi è l’unico con una crescita in negativo.
E così molti inglesi, che nel 2019 premiarono con la maggioranza assoluta il sovranista Boris Johnson che voleva divorziare a tutti i costi da Bruxelles, sembrano pentiti di quella scelta. Secondo un sondaggio appena commissionato dall’organizzazione pro-UE Opinium, oggi un elettore del Partito Conservatore su tre ritiene che la Brexit abbia creato più problemi di quelli che ha risolto. Giudizio condiviso dal 57 per cento degli inglesi, mentre un’indagine pubblicata dal quotidiano Independent mostra che il 65 per cento degli interpellati è favorevole a un nuovo referendum per tornare nell’UE.
Insomma, siamo di fronte alla rivincita della realtà sulla demagogia che, dal referendum del 2016 ad oggi, ha consentito a quattro premier conservatori di risiedere al numero 10 di Downing Street cavalcando più o meno spregiudicatamente la Brexit. Purtroppo per gli inglesi, alla luce di quello che è successo negli ultimi tre anni, prima con il Covid e poi con la guerra in Ucraina, è evidente che le conseguenze sono state sentite da tutti i Paesi europei, ma è altrettanto evidente che l’impatto è stato particolarmente negativo in UK. Come appena confermato dalla Banca d’Inghilterra, secondo la cui analisi il Paese è entrato in una recessione che durerà fino al 2024.
Intanto l’inflazione è ai massimi da quarant’anni. Gli aumenti dei prezzi riguardano soprattutto i generi di prima necessità, e quindi stanno colpendo i ceti meno abbienti. Il tenore di vita dei cittadini è crollato ai ritmi più rapidi dal dopoguerra e milioni di persone sono finite sotto la soglia della povertà. Da qui una raffica di scioperi come non si vedeva da anni. Prima gli infermieri, che a cavallo di Natale hanno bloccato il Servizio sanitario nazionale, poi le centinaia di migliaia di lavoratori che il 1 febbraio sono scesi in piazza per dar vita al maggiore sciopero degli ultimi dieci anni.
Con la crisi dei consumi dovuta al carovita, il mercato domestico si è contratto, ma le imprese sono in difficoltà anche sul fronte estero, perché la Brexit ha ridotto l’export verso l’Unione Europea, che resta il maggiore partner commerciale dell’Inghilterra. Società grandi e piccole lamentano adesso problemi nell’esportare a causa delle lungaggini burocratiche nate con la Brexit. E come se non bastasse, c’è anche la difficoltà nel reperire personale, sia qualificato che non, dovuto in gran parte all’esclusione dei cittadini europei dal mercato del lavoro.
Insomma, una situazione che sembra senza via d’uscita per il governo conservatore di Rishi Sunak, il primo ministro succeduto a ottobre 2022 alla meteora Liz Truss. Il problema è che anche l’attuale premier, come i tre colleghi che lo hanno preceduto nell’ultimo anno, non sa come gestire la Brexit e intanto è costretto a occuparsi soprattutto dei contrasti e delle tensioni interne a un Partito Conservatore che i sondaggi danno ormai sotto il 30 per cento.