Il numero: 1.768. Tanti sono i giorni del calvario patito da Enzo Tortora, ma anche dalle figlie, da tutte le persone che gli hanno voluto bene. La prima “stazione” di quel calvario il 17 giugno 1983: Tortora alle 4 del mattino è prelevato dalla stanza dell’hotel Plaza dove alloggia quando è a Roma; l’ultima: il 18 maggio 1988, quando muore stroncato da un cancro ai polmoni.
1.768 giorni scanditi da una incredibile quantità di infamie; ma la cosa più stupefacente, incredibile, terrificante, è che quella catena di orrori che si consumano sono ben visibili. Come dice la figlia Gaia Tortora in un’intervista al Corriere della Sera, «era chiaro fin dall’inizio che l’inchiesta fosse piena di incongruenze e nessuno ha voluto vedere». Talmente chiaro che non si può parlare di “errore”. L’errore è uno sbaglio, un deviare da quello che è o si ritiene vero o giusto.
Ma si può parlare di “errore” quando può essere visto, compreso come tale dagli stessi che lo commettono? Non è un “errore”. È un orrore, un’ingiustizia. Il pubblico ministero che in aula retorico procombe: «Ma lo sapete voi che più cercavamo le prove della sua innocenza, e più trovavamo le prove della sua colpevolezza?»… Quante volte ho sentito quella frase; quante volte ho voluto inserirla nei miei servizi televisivi, perché è giusto ricordare che non c’è giustificazione per quello che è accaduto e Tortora ha patito. Arrestato “per pentito preso” e nessuna prova ci si è dati pena di cercare.
Un’ingiustizia/orrore che poteva benissimo essere vista da quelli che la commettevano. Potranno anche giustificarsi che non sapevano quello che pur facevano, ma si può replicare, confortati dal Manzoni autore della Storia della colonna infame, che «se non seppero quello che facevano, fu per non volerlo sapere».
Del comportamento dei magistrati titolari di quell’inchiesta, del fatto che una masnada di sedicenti collaboratori di giustizia invece di essere smascherati per le loro menzogne e puniti, vengono considerati oracoli da cui attingere e da premiare, bene o male s’è detto, scritto (più male che bene).
Quello che Gaia nella citata intervista ricorda è l’accanimento bestiale nei confronti del padre da parte di chi invece per compito se non per vocazione, deve porsi domande, cercare risposte: «Quando mio padre è uscito dalla caserma dei carabinieri con le manette ai polsi erano tutti accaniti. Urlavano, qualcuno l’ha insultato. Ma io mi riferisco soprattutto a quello che è successo dopo. Era chiaro fin dall’inizio che l’inchiesta fosse piena di incongruenze».
Sì, era chiaro. Da subito, fin dalle prime ore. Non c’era neppure da sfogliare le migliaia di pagine dell’inchiesta per capirlo. All’epoca ero un cronista di primissimo pelo. Era chiaro a me, subito quel giorno stesso, ne scrivo. Perché non risulta chiaro alla schiera di esperti e smaliziati cronisti accorsi in branco a Roma prima, a Napoli poi? Quella montagna di articoli che giorno dopo giorno si sfornano sul “caso Tortora”, ancor oggi, quando li riguardo e li rileggo provocano sgomento, un senso di vertigine.
È vero: un amico di una vita, Piero Angela, scrive un appello, insinua il dubbio che Enzo Tortora sia innocente; il dubbio via via comincia a lacerare le coscienze, ecco Enzo Biagi, Giorgio Bocca, Indro Montanelli. Leonardo Sciascia no: lui dubbi non ne ha. “Sa”, scrive, che è innocente. Pochi altri, con loro: ricordo Massimo Fini, Pierluigi Magnaschi, Guglielmo Zucconi… E si assiste a una sorta di schizofrenia: commenti improntati al dubbio; cronache caratterizzate da certezza della colpevolezza…
Perché quell’accanimento? Per inciso: la stessa sorte subisce Franco Califano, anche lui accusato dei medesimi reati, poi risultato innocente. Su Paese Sera e Il Manifesto riesco a scrivere una manciata di articoli di segno diverso dalla valanga di altre “cronache” che lo vogliono, al pari di Tortora, colluso con la camorra, “cumpariello”. Perché così pochi dubbi, così tante certezze? Per quel che riguarda i politici: perché tanta paura, tanta pavidità? Marco Pannella e il Partito Radicale si mobilitano, candidano Tortora al Parlamento Europeo. Gli altri partiti, gli altri leader politici muti, immobili, latitanti.
È una pagina vergognosa della nostra storia recente; scritta da tanti: magistrati, giornalisti, politici. Non aver parlato, non aver mosso un dito non è meno colpevole di quanti potevano vedere e capire e non vollero vedere e capire. Nessuno ha fiatato, per quell’abominio, a cominciare dal Consiglio Superiore della Magistratura, dell’Associazione Nazionale dei Magistrati, dell’Ordine dei Giornalisti. Silenti e assenti.
E si torna a quell’indimenticabile 17 giugno 1983. La sera prima Guglielmo Zucconi, direttore de Il Giorno, riceve una “soffiata” relativa a una maxi-operazione imminente, coinvolto un grosso nome dello spettacolo. A un suo giornalista, Paolo Martini, dice: «So solo che sta nelle ultime lettere dell’alfabeto». Non ci vuole molto: Vianello, Tortora, Tognazzi… Martini contatta Enzo Tortora: «Quando lo avvertii che circolava il suo nome tra i possibili implicati in un blitz di camorra, si mise a ridere…».
Invece… All’alba i carabinieri arrestano Tortora; non solo lui: sono 856 gli ordini di cattura. Mentre lo portano via è ancora convinto che si tratti di un caso di omonimia e che tutto si risolverà in poche ore. Non è così. C’è un’accorta regia: si aspetta la tarda mattinata, perché si ammassino troupe televisive e fotografi, Tortora viene fatto uscire dalla caserma per essere trasferito al romano carcere di Regina Coeli, ammanettato, il volto disfatto. «I polsi, i polsi!», urlano i cameraman; e s’odono voci: «Farabutto, pezzo di merda, ladro». Prendono corpo le accuse più inverosimili: Tortora ha rubato i soldi raccolti per il terremoto dell’Irpinia, ha uno yacht comprato con i guadagni dello spaccio, si incontra con Turatello, Pazienza e Calvi scambiando valigette di droga e dollari.
Questa vicenda viene ricostruita con acribia lodevole da Gaia Tortora nel libro Testa alta, e avanti. In cerca di giustizia, storia della mia famiglia (Mondadori). Un libro da comperare, leggere, meditare, regalare. Per non smarrire la memoria; e per cercare di capire.
Per farlo c’è bisogno di inquadrare l’operazione “settembre nero della camorra” in un contesto più vasto, che ci riporta a uno dei periodi più oscuri e melmosi dell’Italia di questi anni: il rapimento dell’assessore all’urbanistica della Regione Campania Ciro Cirillo da parte delle Brigate Rosse di Giovanni Senzani e la conseguente, “trattativa” tra Stato, terroristi e camorra.
Per Cirillo si chiede un riscatto, svariati miliardi. Il denaro si trova, anche se durante la strada un po’ se ne “perde”, finito nelle tasche di non si sa bene chi. Un riscatto, si dice, di circa cinque miliardi, raccolti da amici costruttori. Cosa non si fa, per amicizia! Soprattutto se poi ci sono “ritorni”. Il “ritorno” si chiama ricostruzione post-terremoto, affari colossali. La commissione parlamentare guidata da Oscar Luigi Scalfaro accerta che la torta è costituita da oltre 90mila miliardi di lire. Peccato: molti che forse potrebbero spiegare qualcosa non sono più in condizione di farlo, tutti morti ammazzati: da Vincenzo Casillo luogotenente di Cutolo, a Giovanna Matarazzo, compagna di Casillo; da Salvatore Imperatrice, che ha un ruolo nella trattativa, a Enrico Madonna, avvocato di Cutolo…
A legare i “fili” che uniscono Tortora, Cirillo, la camorra, la ricostruzione post-terremoto non è un giornalista affetto da fantasia complottarda. È la denuncia, anni fa, della Direzione Antimafia di Salerno: contro Tortora erano stati utilizzati “pentiti a orologeria” per distogliere l’attenzione della pubblica opinione dal gran verminaio della ricostruzione del caso Cirillo, e la spaventosa guerra di camorra che ogni giorno registra uno, due, tre morti ammazzati tra cutoliani e anti-cutoliani. Poi ci si rende conto che bisogna reagire, fare qualcosa, dare un “segnale”. In questo contesto che nasce “il venerdì nero della camorra”, che in realtà si rivelerà il “venerdì nero della giustizia”.
Enzo Tortora da quella vicenda non si è mai completamente ripreso. Stroncato dal cancro vuole essere sepolto con una copia della Storia della colonna infame, di Alessandro Manzoni. Dice: «Ero liberale perché ho studiato; sono radicale, perché ho capito». Sulla sua tomba un’epigrafe, dettata da Sciascia: «Che non sia un’illusione». Per tutto il tempo che gli è rimasto da vivere ha combattuto per la giustizia “giusta”. Il capo della polizia Antonio Manganelli, un galantuomo, alla figlia Silvia confida: «Quella di tuo padre è stata la merda più gigantesca della storia». Non c’è bisogno di aggiungere altro.