L’appuntamento anche quest’anno è al ponte Garibaldi di Roma: come ogni 12 di maggio una delegazione del Partito Radicale e altri gruppi di cittadini sostano in quel punto del ponte vicino alla statua del poeta Giuseppe Gioacchino Belli. C’è una lapide: «A Giorgiana Masi, 19 anni, uccisa il 12 maggio 1977 dalla violenza del regime. Se la rivoluzione d’ottobre / fosse stata di maggio / se tu vivessi ancora / se io non fossi impotente di fronte al tuo assassinio / se la mia penna fosse un’arma vincente / se la mia paura esplodesse nelle piazze / coraggio nato dalla rabbia spezzata in gola / se l’averti conosciuta diventasse la nostra forza / se i fiori che abbiamo regalato / alla tua coraggiosa vita nella nostra morte / almeno diventassero ghirlande / della lotta di noi tutte donne /se… / non sarebbero le parole a cercare di affermare la vita / ma la vita stessa senza aggiungere altro».
Questa lapide ha una piccola storia: viene apposta nel corso di una manifestazione. Il comune di Roma non si oppone. Lo fa il ministro dell’Interno Virginio Rognoni, chiede sia tolta e segnala alla magistratura che l’autorità giudiziaria e le autorità comunali romane hanno lasciato fare, ma non c’è alcuna delibera comunale che autorizzi. Il Partito Radicale e il movimento femminista fanno sapere che se la lapide viene rimossa ne collocheranno subito un’altra. Anche il comune tiene duro. La storia finisce così: la lapide rimane.
Da allora, ogni anno, in ricordo di quella vittima innocente, di quel terribile 12 maggio 1977, si depone un fiore, qualche minuto di raccoglimento; e non ci si stanca di reclamare giustizia e verità.
Dunque, 46 anni fa. Molti di “allora” non ci sono più; qualcuno si è rifugiato in chissà quale Puerto Escondido; alcuni ci sono ancora, magari – perfino – credono di ricordare. Tanti che allora non c’erano, oggi raccontano come sono andati i fatti. È pur sempre bello imparare quello che allora non ci si è accorti stesse accadendo…
Chi volesse fare dell’archeologia giornalistica (in questo google aiuta), tra le tante fotografie, ne troverebbe una che è diventata una sorta di simbolo: ritrae un giovane, pistola in mano, maglione bianco attraversato da una vistosa striscia nera, borsa di Tolfa a tracolla, mentre su indicazione di una persona in borghese, ma di tutta evidenza poliziotto, corre in direzione del fotografo; alle spalle un altro poliziotto, in tenuta antisommossa. Quella foto, e molte altre simili, risale al 12 maggio 1977.
Quel giorno si vuole festeggiare la vittoria del referendum sul divorzio; finisce in guerriglia, sul terreno alla fine, Giorgiana Masi, centrata da un colpo di pistola all’altezza del ponte Garibaldi. Uccisa nella serata, ma disordini e tafferugli durano da ore. Il Partito Radicale aveva dato appuntamento per un concerto a piazza Navona: festa, musica gratis, e raccolta di firme per referendum abrogativi di leggi autoritarie ed eredità dei codici che risalgono ancora al fascismo.
Dal Viminale (il ministro dell’Interno è Francesco Cossiga) il perentorio divieto, assurdo, immotivato. Non c’è alcuna minaccia all’ordine pubblico: i poliziotti per primi sanno che quando a manifestare sono i radicali si può stare tranquilli, al massimo si buttano a terra e si fanno trascinare via, chi ci rimette sono soprattutto i vestiti dei manifestanti; è quasi un rito: una volta identificati, firmati i verbali, capita che si vada insieme a prendere il caffè nel bar vicino. I poliziotti ormai ti chiamano per nome, se la ridono per primi per quello che sono costretti a fare…
Quel pomeriggio no: tutto il centro di Roma è blindato: poliziotti e carabinieri in assetto di guerra, inaccessibile la piazza Navona, i primi manifestanti brutalmente fermati e picchiati per un nonnulla. Lo so bene. Alle 16, all’altezza del Senato, un tipo in borghese senza qualificarsi e dire una parola, mi dà un paio di cazzotti all’altezza dello stomaco, pugni degni del miglior Mike Tyson. E poi violenti strattoni. Lo documenta una giacca di renna dilaniata che conservo ancora gelosamente “cimelio” di quella terribile giornata. Assieme alla giacca, un ritaglio della tedesca “Stern”. La didascalia mi qualifica “autonomo milanese” durante non precisati scontri.
Dalle 15 fino a sera il centro di Roma è sconvolto da una vera e propria guerriglia. Quel giorno, per sicurezza, “qualcuno” del potere predispone non solo gli “anti-guerriglieri”, ma anche i “guerriglieri”. Perché presto si scopre che accanto a poliziotti e carabinieri in divisa e in assetto di guerra, ce ne sono altri, travisati da Autonomi; il loro compito è infiltrarsi; provocare, e giustificare quelle cariche e quegli incidenti che puntualmente si verificano. Come quel ragazzo con il maglione bianco e la vistosa striscia nera. «Agenti travestiti da lupi che qualcuno voleva fossero lupi», denuncia Marco Pannella a Montecitorio. Non è una presunzione, questa degli agenti “provocatori”: è certezza: documentata da un filmato, da decine di fotografie e testimonianze poi raccolte in un “libro bianco” curato e pubblicato dal Partito Radicale. Grazie a quel documento è possibile provare che poliziotti infiltrati andavano a prendere ordini da riconoscibilissimi funzionari di polizia. Una giornata interminabile di violenza e violenze. Qualcuno del potere aveva programmato una strage che per fortuna non ci fu. Ma Giorgiana Masi viene comunque uccisa; nonostante denunce, inchieste, processi non si è riusciti a dare un nome a chi ha sparato ad altezza d’uomo. Neppure i mandanti hanno un volto ufficiale: chi ha voluto che quei ragazzi, quel giorno si trasformassero in “lupi”.
Anni dopo Cossiga, che aveva sempre puntato il dito contro i settori di Autonomia, ammette di essere stato ingannato. Da chi, come e perché sarebbe stato ingannato, è uno dei tanti misteri italiani. Chi, come me che quel giorno c’era, continua a farsi la stessa domanda: “Chi”, specificatamente, ha voluto, tramato, organizzato, gestito? La risposta all’altra domanda (“Perché?”) è venuta dai 46 anni trascorsi e dai successivi avvenimenti.
Notazione finale: accade, come sempre in questi casi, che tanti parlino (o scrivano) senza sapere; contraltare di chi sa e non parla (o non scrive). In parte sono i cosiddetti “eroi della sesta giornata”; altri depositari di verità che ancora non si devono conoscere. I primi li si può liquidare con la fulminante battuta di Ennio Flaiano: «Quelli credono di essere noi». Per gli altri, di tutta evidenza, le cose si fanno più complesse e complicate; come allora inquietanti.