Chiara Colosimo e il commissario per l’alluvione. Due difficili prove per Giorgia Meloni. La presidente del Consiglio ripete: non ha «mai avuto simpatia» per il fascismo. Resta una macchia indelebile la «vergogna delle leggi razziali» volute dalla dittatura di Benito Mussolini. Giorgia Meloni, dal governo, condanna con nettezza ogni nostalgia per il Ventennio.
La presidente del Consiglio loda la libertà, il diritto al dissenso. Pilota con decisione Fratelli d’Italia, il suo partito post fascista, verso la conversione in una forza di destra democratica. Lancia appelli all’unità dell’Italia, al dialogo con tutti, al confronto con i sindacati per affrontare i gravissimi problemi sociali, economici e politici della nazione.
Corregge il tiro in politica estera lasciando il sovranismo e il populismo di quando era all’opposizione. Fa rotta verso gli Stati Uniti schierandosi nettamente al fianco di Joe Biden e della Nato nell’appoggio all’Ucraina invasa dalla Russia. Incontra più volte Volodymyr Zelensky assicurandogli il pieno sostegno dell’Italia contro Vladimir Putin.
Però deve fare i conti con le resistenze alla svolta emerse dentro Fratelli d’Italia. Ha sanzionato, ad esempio, il revisionismo di Ignazio La Russa sulla strage nazista delle Fosse Ardeatine a Roma ma ha lasciato cadere nel vuoto l’appello di Gianfranco Fini ad assumere i valori dell’antifascismo. Ha assecondato una politica muscolare sulla sicurezza, tema classico della destra, introducendo il reato per i Rave Party e operando un ulteriore giro di vite sui migranti.
Di tanto in tanto ha concesso e concede molto all’ala più dura di Fratelli d’Italia e della maggioranza di destra-centro sulla quale si regge il suo esecutivo. Due esempi. Il primo: sostiene l’elezione a presidente della commissione parlamentare Antimafia di Chiara Colosimo, attaccata dalle opposizioni perché vicina all’ex terrorista Luigi Ciavardini, aderente ai Nar, organizzazione di matrice neofascista. Così Chiara Colosimo è eletta presidente dell’Antimafia solo con i voti della maggioranza mentre le opposizioni disertano la votazione per protesta chiedendo “un presidente di garanzia”. Colosimo ha smentito di aver avuto un rapporto di amicizia o politico con Ciavardini, tuttavia lo conosceva «perché lui è in una associazione che si occupa di reinserimento di detenuti», quindi per opportunità era meglio rinunciare al delicato incarico.
Il secondo esempio: Giorgia Meloni era propensa a nominare Stefano Bonaccini, Pd, commissario straordinario per la ricostruzione delle zone alluvionate. Ma subito è partito il veto di Matteo Salvini, segretario della Lega, vice presidente del Consiglio e ministro delle Infrastrutture. Ma anche diversi esponenti di Fratelli d’Italia si sarebbero mossi per stoppare la nomina del presidente della regione Emilia Romagna.
Giorgia Meloni è costretta a muoversi su un sentiero stretto: deve fare i conti con la forte identità di destra, alle volte anche estrema, del suo partito e della sua maggioranza. In molti casi è prigioniera dell’ala dura della destra, in altri riesce ad andare avanti abbastanza speditamente come nell’attenta tenuta dei conti economici, nel nuovo europeismo e nel nuovo atlantismo. Non è facile. Ancora l’anno scorso, quando era all’opposizione del governo Draghi, le sfuriate populiste e sovraniste erano continue. Basta ricordare gli attacchi veementi al green pass per il Covid e per gli interessi nazionali dell’Italia colpiti dall’Unione Europea. Anche su queste battaglie ha vinto le elezioni legislative con un successo clamoroso personale e politico. Però ora è al governo e gli italiani le chiedono di risolvere e non di agitare i problemi. In Fratelli d’Italia ci può essere chi ha nostalgie per il fascismo ma la stragrande parte dei suoi elettori no.