La CGIL, sabato prossimo 24 giugno a Roma in piazza, insieme a moltissime organizzazioni sociali, manifesta per cambiare la sanità confermandone il carattere pubblico e universale. La mobilitazione andrà avanti nei prossimi mesi per cambiare le politiche sanitarie di governo e Regioni.
Si possono e si devono fare i cambiamenti richiesti da più parti come da tutte le parti è richiesto l’aumento del FSN. Il modello di sanità pubblica, come delineato con la legge 502 e estesamente confermato dal dlg 229, ha mostrato le sue molte criticità.
Vi è necessità di una riforma sanitaria che si realizzi con un consenso il più ampio possibile di chi sta dalla parte del Servizio sanitario pubblico universale, con il fine di dare maggiori servizi sanitari pubblici e migliorare la qualità di vita dei nostri cittadini. Quel massimo consenso possibile va costruito ricercando condivisioni e evitando contrapposizioni aprioristiche e rigidità.
Serve un grande senso di responsabilità delle istituzioni e delle forze politiche per fermare una deriva privatistica poco contrastata fino ad oggi. Rendere sostenibile il lavoro negli ospedali e nel territorio è l’impegno che abbiamo oggi e che non si risolve alla radice con il solo strumento della indennità e delle deroghe ai requisiti per l’accesso a specifiche funzioni mediche, comprensibili nella lunga fase dell’emergenza Covid.
Gli operatori della sanità, tutti gli operatori, sono il perno imprescindibile di una sanità pubblica che si misura con il mercato seguitando a sfidare in qualità i servizi privati. Di operatori ne servono di più, a tempo indeterminato, in relazione ai fabbisogni e vanno remunerati contrattualmente, riconoscendo il valore del loro lavoro, di cura, prevenzione e riabilitazione ed il ruolo del Servizio sanitario pubblico nella società italiana.
Le criticità. Il quadro critico in cui si colloca la mobilitazione, che andrà avanti nei prossimi mesi, è contraddistinto da alcuni tratti consolidati e ben evidenti ai cittadini utenti del SSN:
- mancanza di una sanità del territorio da sempre estesamente consegnata ai privati;
- esistenza di diseguaglianze fra le Regioni e all’interno delle Regioni nell’accesso alle prestazioni e nelle complessive performances regionali (vedasi rapporto CREA);
- permanenza di carenze non accettabili di personale dovute al blocco pluriennale del turn over, ai tagli e al vincolo dei tetti alla spesa corrente per le assunzioni, (che oggi pesano molto in particolare per medici e per alcune figure sanitarie);
- mancanza di fondi adeguati (ormai sotto il 7 % del PIL) e limiti nella capacità locale a usarli bene.
Da diverse parti si ricorda che il SSN deve essere sostenibile. Certamente lo deve essere dal punto di vista finanziario ma soprattutto dal punto di vista sociale, punto fondamentale di equilibrio della nostra democrazia che deve riguardare tutti, nessuno escluso.
Interconnessa con le problematiche più generali relative al modello erogativo attuale è venuta avanti con molta forza di recente la questione dei Pronto Soccorsi in relazione ai tempi intercorrenti fra l’ingresso e il trasferimento nei reparti ospedalieri.
Non c’è riorganizzazione della sanità territoriale che possa fare la differenza se insieme non si riorganizzano gli ospedali su standard nuovi e nuovi requisiti, attraverso un “nuovo DM 70” e con l’adeguamento del numero di posti letto, in specie fra Roma e le restanti provincie. La soluzione adottata di recente dalla Regione Lazio di investire risorse finanziarie importanti per liberare posti letto di reparti ospedalieri con il trasferimento degli occupanti in strutture private affronta la criticità esaminandola con gli occhiali della straordinarietà e del ricorso alla esternalizzazione senza un esame strutturale.
Si seguita ad eludere un passaggio (imprescindibile per una nuova giunta regionale, in una fase cruciale di transito verso un SSR che sta già cambiando), costituito da una discussione pubblica, partecipata, promossa con le ASL, con enti locali, sindacati e associazioni per indicare la direzione di marcia che i decisori pubblici vogliono portare avanti per una sanità regionale che da anni il “Nuovo sistema di garanzia”, attraverso l’esame dei Lea, ci dice essere sempre più assimilabile a quella delle Regioni che non eccellono.
Una Conferenza regionale pubblica sulla sanità, un rapporto trasparente sulle attività e sul futuro del Servizio pubblico nel contesto del “sistema sanitario” del Lazio anche alla luce di convergenze e disponibilità affermate verso interlocutori che ascoltati dalla vecchia e dalla nuova giunta chiedono che il SSR si trasformi in un sistema unico paritario pubblico-privato.
Il cambiamento della sanità che è già in atto si inscrive in una prospettiva che le istituzioni sanitarie nazionali e regionali stanno riaffermando con vari provvedimenti amministrativi che prevedono una interoperatività di medicina del territorio con la medicina a distanza. Certamente è una importante innovazione che può fare in molti casi la differenza. C’è tuttavia un eccesso di enfasi laddove si afferma che una modalità diversa di erogazione di prestazioni sia risolutiva e che la telemedicina in sé possa risolvere le tante diseguaglianze che ci sono.
I medici di famiglia nella sanità. Il nodo dirimente da sciogliere a livello nazionale è quello del rapporto di lavoro fra medici di medicina generale e SSN. Tutti sanno che la riorganizzazione qualificata della sanità territoriale che sta muovendo nei processi attuativi della missione 6 e di parte della missione 5 del PNRR e nell’attuazione del DM 77, non può vivere nel permanere dell’attuale rapporto convenzionale, come configurato e difeso in modo chiuso dalla dirigenza della FIMMG, la rappresentanza sindacale che condiziona le decisioni pubbliche e che è determinante nel sistema degli ordini dei medici.
Le Regioni, che già estesamente avevano “aperto” a sostegno di un rapporto di dipendenza, mostrano al loro interno la crescita di tale convincimento. Il ministro Squillaci prevede “un modo diverso di lavoro per i medici di medicina generale”. Diverse sono le associazioni di giovani MMG che si sono espresse a favore di un rapporto di lavoro che li allinei agli altri medici del SSN. La CGIL sostiene l’adozione di un rapporto di lavoro eguale o, in subordine, analogo a quello della dipendenza.
Di certo la sanità territoriale, le Case di comunità in specie, non possono impiantarsi funzionalmente nel permanere di un rapporto di lavoro a quota capitaria, immutato nel tempo, nel quale l’autorganizzazione del proprio lavoro e la partecipazione volontaria nelle AFT restino i cardini di un lavoro che richiede invece una programmazione, il pieno esercizio delle funzioni del responsabile del distretto sanitario anche rispetto alle cure primarie, come ben precisato dal DM77, un ruolo “forte” del distretto sanitario che attiene alle cure primarie da erogare in modalità UCCP, veri controlli sulla appropriatezza prescrittiva, come parte di un insieme di funzioni di coordinamento che devono essere svolte nella Casa della salute, struttura del distretto sanitario.
Autonomia differenziata di fatto. Da oltre 20 anni con la modifica del titolo V° della Costituzione le Regioni agiscono di fatto in una sorta di autonomia differenziata che contraddice paradossalmente i principi costituzionali di cui all’art 32.
Sarebbe un atto di responsabilità se la materia sanità fosse espunta dalle intese fra governo e Regioni. Oggi le Regioni di fatto hanno pieno potere operativo e sarebbe una novità da non respingere se la prossima Conferenza Stato-Regioni e il nuovo Patto triennale per la salute, prendendo atto degli effetti distorsivi indotti nel SSN dalle diseguaglianze fra Regioni, riconoscessero al ministero della Sanità un rafforzato, effettivo ruolo di controllo che il ministro Squillaci ha rivendicato.
I prossimi tre anni del nuovo Patto Salute sono decisivi per ricostruire un equilibrio maggiore dei bilanci regionali sanitari per 2/3 in sofferenza. Lamentare l’esistenza di 20 “repubbliche sanitarie” sostenendo al contempo le ragioni dell’autonomia differenziata è certamente contraddittorio.
La scadenza 2026 è un termine che dobbiamo tenere in considerazione nel rivendicare dalla Regione Lazio programmazione e rimodulazione degli interventi, ivi compresi quelli, in parte in atto, relativi all’edilizia sanitaria. Le Regioni sul piano nazionale nel confronto con il governo ripropongono di tenere presenti tre strumenti già indicati a ridosso del dibattito sul DEF: la possibilità di trasferire gli investimenti dal PNRR all’articolo 20 della legge finanziaria 67/88 dedicato all’edilizia sanitaria, la copertura nei prossimi dieci anni da parte del Governo dei ristori per le spese sostenute dalle Regioni durante il Covid, l’ancoraggio del fondo sanitario al Pil in modo da garantire un metodo automatico di aggiornamento del valore annuale e avere fin da subito, viste le stime di crescita dell’1,7 per cento, più risorse a disposizione”.
il Servizio Sanitario regionale del Lazio, anche all’interno delle dinamiche che si sono aperte ha la responsabilità di garantire universalità, eguaglianza ed equità nella tutela della salute.
Ogni cittadino deve avere accesso alle cure del medico di famiglia nell’arco delle 24 ore e garantite le prestazioni di specialistica ambulatoriale entro e non oltre i tempi definiti dalle priorità indicate nella prescrizione del medico ed avere sempre accesso alla rete ospedaliera regionale che va riorganizzata su nuovi standard di struttura e per singole discipline.
Rino Giuliani, dipartimento Welfare dello Spi Cgil di Roma e del Lazio