Era il 7 giugno 2022 quando, davanti al numero 10 di Downing Street, Boris Johnson anticipava ai giornalisti le dimissioni da Primo ministro. Una scelta determinata dal suo indebolimento nel governo e tra i tory.
Eppure un anno fa nessun osservatore pensava che la carriera politica del premier conservatore firmatario della Brexit fosse arrivata alla fine. Anzi. Per i più le dimissioni erano solo una mossa tattica per preparare un rapido ritorno a Downing Street.
E il piano doveva essere veramente quello, se è vero che a fine ottobre, dopo la caduta della debolissima Liz Truss, premier rimasta in carica appena 45 giorni, Johnson si attacca al telefono per sondare il terreno e cercare alleati in vista d’un nuovo mandato. Insomma, per tornare a fare quello che al momento delle dimissioni aveva definito «il migliore lavoro del mondo».
Ma l’operazione ritorno fallisce, la maggioranza tory gli preferisce Rishi Sunak, suo antico ministro delle Finanze. Allora Johnson risponde aprendo subito le ostilità e fa di tutto per mettere in difficoltà il nuovo premier. Dall’ostracismo all’accordo del governo inglese con l’Irlanda del Nord per risolvere i problemi doganali legati alla Brexit, alla visita a sorpresa a Kiev per incontrare Zelensky proprio nel momento in cui il presidente dell’Ucraina preme per ottenere da Londra armamenti che considera “indispensabili”.
Ma da lì a poco Boris Johnson dovrà lasciar perdere l’odiato Sunak e preoccuparsi di una brutta tegola che sta per cadergli addosso. Si tratta della Commissione parlamentare d’inchiesta sul cosiddetto Partygate: lo scandalo delle feste organizzate a Downing Street tra il 2020 e il 2021, cioè in pieno Covid e in violazione del lockdown. Johnson ha sempre cercato di negare la sua partecipazione, ma sui cellulari di alcuni membri del suo staff ci sono filmati che lo inchiodano.
La Commissione va avanti con la sua indagine. E così, quando ormai la condanna sembra certa, l’ex premier gioca l’ultima carta, le dimissioni a sorpresa anche da parlamentare. Una mossa che gli consente di partire subito all’attacco accusando la Commissione di essersi trasformata in un Tribunale politico creato per metterlo fuori gioco. Insomma, un’operazione alla Trump. Ma, a differenza del leader populista statunitense, Johnson non trova tra i tory un numero di sostenitori sufficiente per consentirgli di restare in gioco.
Quando l’assemblea tory si riunisce per votare sul verdetto della Commissione che ha condannato Johnson (per aver partecipato a 15 Party durante il Covid) più di 200 deputati conservatori, incluso il primo ministro e gran parte del governo, si astengono o si assentano al momento della votazione. A bocciare le conclusioni della Commissione ci sono solo sette parlamentari tory.
Per il leader conservatore più divisivo della recente storia politica inglese è la fine. E così il premier populista che ha voluto a tutti i costi la Brexit, paga le conseguenze del divorzio dall’Ue e l’attuale crisi economica della Gran Bretagna. Un prezzo altissimo per l’uomo che solo 4 anni fa umiliava il Labour e stravinceva le elezioni politiche, dando ai conservatori la loro più grande maggioranza dal 1987.