Tra qualche giorno, il 19 luglio, l’anniversario della strage a via d’Amelio a Palermo, costata la vita a Paolo Borsellino e ai cinque agenti della sua scorta, Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Eddie Walter Cosina e Claudio Traina.
Già trentun anni sono trascorsi da allora. Prevedibilmente anche quest’anno si esibiranno in tanti: in prima fila troveremo molti che più opportunamente dovrebbero tacere: nel migliore dei casi poco o nulla sanno, hanno da dire.
Meglio dunque fissare subito alcuni punti indiscutibili, prima di essere sommersi dalla mala-retorica. Punti che ricavo da alcuni interventi recenti dell’avvocato Fabio Trizzino, legale che in tutti questi anni ha assistito la famiglia Borsellino nella faticosa ricerca della verità e della giustizia, marito di una delle figlie.
Trizzino ci invita a rileggere «gli avvenimenti di allora alla luce anche delle più recenti acquisizioni processuali, emerge il terribile clima di tensione all’interno della Procura di Palermo, cui Borsellino era approdato, dopo l’esperienza di Marsala, nel marzo del 1992». Si riferisce in particolare «alle testimonianze dei colleghi della Procura di Palermo davanti al Consiglio Superiore della Magistratura del luglio 1992. Esse, per quanto fondamentali, non sono mai state riversate nei numerosi processi sulla strage di via D’Amelio, e quindi, di fatto, tenute segrete per oltre trent’anni. In quelle testimonianze vi è la descrizione puntuale delle dinamiche, inutilmente pretestuose e ostracizzanti messe in atto dal Procuratore Capo dott. Pietro Giammanco verso Borsellino, la cui unica colpa era di comprendere, attraverso la valorizzazione di determinate indagini, le ragioni dell’escalation criminale in corso. In particolare, la ricostruzione consacrata ormai in numerose sentenze, ci consegna e cristallizza il fervente interesse di Borsellino per le indagini compendiate nel Rapporto del ROS dei carabinieri del febbraio del 1991, il cosiddetto “dossier mafia-appalti”».
Trizzino valuta queste testimonianze «fondamentali per comprendere le dinamiche sottostanti la creazione di quel particolare contesto di isolamento e delegittimazione di Borsellino in seno al proprio Ufficio, quale prodomo necessario per la realizzazione di quelle condizioni obiettive per agevolarne l’eliminazione».
Trizzino ricorda le confidenze di Borsellino a due colleghi magistrati, Alessandra Camassa e Massimo Russo: disse loro che era stato tradito da una persona ritenuta amica. Riferendosi alla procura di Palermo di allora, la definisce «un covo di vipere».
Ancora: «Di fronte alla descrizione di un dolore che con il passare del tempo si accresce, in considerazione del fatto che si è pure scoperto che le indagini ed i primi processi sulla strage di Via D’Amelio, hanno costituito l’ambito di elezione per il confezionamento del più grande depistaggio della storia giudiziaria italiana, è giunto il momento, ineludibile, di scoprire ed indagare quello che accadde nella Procura di Palermo una volta che Borsellino ebbe ad
approdarvi. Si dice spesso che lo Stato non è pronto ad accogliere gli inconfessabili segreti di quella stagione. Questa affermazione è per noi condivisibile nella misura in cui in esso Stato venga finalmente compresa l’istituzione magistratuale dentro cui fra mille difficoltà ed invidie, Falcone prima, Borsellino poi, cercarono di fare il loro dovere sino al compimento dell’estremo sacrificio».
Sono trascorsi decine di anni dalle stragi a Capaci e via D’Amelio; eppure indimenticabili sono le terribili immagini che si sono presentate ai nostri occhi di inviati, lo scempio che ci è toccato vedere e cercare di raccontare. Anche per questo, noi che ne siamo stati testimoni dovremmo sentire come civico dovere quello di essere al fianco della famiglia Borsellino, sostenerla come si può, come si sa. Sia detto per inciso (e con volontaria vena polemica): l’Associazione Nazionale dei Magistrati ha nulla da dire, per quanto riguarda le affermazioni dell’avvocato Trizzino?