Strage di Ustica. Giuliano Amato ricorda, racconta, si confida con Repubblica; si ricavano – a distanza di quasi mezzo secolo dalla strage – nuove, preziose, tessere di un mosaico che sembra infinito. La storia è nota, anche se negata, occultata.
Quella sera un DC-9 con a bordo 89 persone civili si inabissa nel mare vicino Ustica. È stato abbattuto. Non si deve sapere da chi, perché. Non si deve saperlo per tante ragioni: chi sa, tace; altri si prodigano nel sollevare polveroni, far sparire prove, depistare. Quante volte si sono visti film di questo tipo?
Tuttavia, chi ha seguito con una certa costanza e caparbietà la vicenda non può non osservare con divertita amarezza (o amaro divertimento, è uguale), certi tardivi stupori e parallele pervicaci negazioni. Si trova conferma che se si sa e si vuole leggere, molto da tempo era scritto; molto da tempo era stato detto; molto da tempo non si è voluto sapere, ascoltare, capire. Come s’usa dire: l’inedito dell’edito.
Di un interesse francese a eliminare Gheddafi credo non si stupisca neppure più un bambino: a voler far risalire questo interesse, si può andare a quando Gheddafi cercò di annettersi il Ciad, prontamente intervennero i parà e la Legione francese, erano gli anni Ottanta. Fino alla fine di Gheddafi (la Francia ha giocato un ruolo decisivo), è stata una caccia continua.
Mi limito qui a cose vissute personalmente.
29 settembre 1989. Il quotidiano del PSI l’Avanti! pubblica un’intervista a Giuliano Amato, “Craxi dispose la riapertura del caso”; è mia l’intervista, Amato mi parla a lungo quel giorno. Comincia così: «I fatti come si sono svolti in questi ultimi anni, a proposito del DC-9 esploso e precipitato al largo di Ustica il 27 giugno 1980, confermano l’impostazione che al tempo del governo Craxi, quand’ero sottosegretario alla presidenza del Consiglio, venne seguita; precisamente: non sappiamo con esattezza cosa sia successo; riteniamo sia stato un missile; sono passati molti anni, ed evidentemente chi ha deciso di coprire, ha ‘fermezza’ nel coprire…».
L’intervista prosegue e si dilunga in episodi e particolari. Non di interesse ora, si può passare tranquillamente alle due ultime risposte:
«È possibile che ci siano responsabilità politiche. Ma bisogna accertarle, documentarle, provarle. La mia opinione è questa: non mi sentirei di escludere che chi ha deciso di coprire la tragedia di Ustica, abbia anche deciso di tenere all’oscuro l’autorità politica, ritenendola un custode non affidabile per un segreto così tremendo».
Domanda: «Di fatto un piccolo golpe».
Risposta: «Non dico che sia accaduto. Però mi pare un’ipotesi molto credibile».
Un “salto”, ora.
A fine novembre 2016 sono invitato a un dibattito-presentazione di un libro: La svolta di Francesco Cossiga. Diario del settennato 1985-1992. Lo ha scritto l’ambasciatore Ludovico Ortona, che in quegli anni Cossiga ha chiamato perché ricoprisse l’incarico di suo portavoce. Il volume, pubblicato da Aragno è di oltre 600 pagine. D’abitudine parlo e presento solo libri che ho debitamente letto, dunque mi accingo all’impresa. Lettura per quando impegnativa, interessante.
Il 30 settembre 1989 Ortona annota: «…Il Presidente si apre un po’ di più su Ustica, e ci dice che ormai se, come sembra, si riduce il campo delle responsabilità a tre paesi che avrebbero lanciato il missile, gli USA, la Francia o la Libia a suo avviso non si può che nutrire sospetti sui francesi. Infatti, certamente gli americani con il loro moralismo puritano avrebbero tirato fuori qualcosa in nove anni. Dei libici non gli pare credibile. Invece nutre sospetti su come operano i francesi e su come saprebbero mantenere il segreto…» (pag.251).
Il 29 giugno del 1990 Ortona annota: «Riceve per un’ora la Bonfietti, presidente dell’Associazione familiari vittime di Ustica con altri del Comitato. Sto dentro e sento che alcune frasi di Cossiga sono un po’ forti (si domanda ad esempio se il Governo dell’epoca, cioè quello guidato da lui, sia stato fatto fesso…)» (pag.337).
Era ancora il tempo in cui ufficialmente il presidente accreditava l’ipotesi dell’attentato, dell’ordigno a bordo.
Che dire? A differenza di molti miei colleghi che per un tempo più o meno lungo si mostravano convinti di un coinvolgimento attivo degli Stati Uniti, ho sempre pensato che a Washington qualcuno sapesse, ma che per un coinvolgimento e una responsabilità attiva si dovesse piuttosto guardare a Parigi; questo per ragioni che sarebbe lungo spiegare ma che ho cercato di spiegare in una quantità di servizi per il Tg2 e in articoli per giornali e riviste.
Più volte ho intervistato l’allora giudice istruttore Rosario Priore, sollecitandolo su questo. Una volta, con tono bonario, ma serio, spenti registratore e telecamera, mi ha raccomandato: «Stia attento a insistere sui francesi, sono tipi piuttosto duri».
Quella frase mi è tornata in mente un giorno, tornato a casa: tutto era in perfetto ordine, nulla mancava, ma tre particolari mi colpirono: la porta finestra che dà sulla terrazza spalancata. L’inverno a Roma è mite, e certamente mi posso essere dimenticato di chiuderla. Sul centro del letto il telefono (a filo), come se l’avessi usato e poi dimenticato di riporlo sul comodino (ma quel telefono non lo uso quasi mai, certo non quel giorno); ma certamente posso aver fatto un movimento soprappensiero, non ricordare. La portiera dell’automobile in garage aperta, ma non quella del guidatore: quella dell’ospite; certamente in quei giorni non avevo “ospitato” nessuno su quell’auto. Come diceva la signora del “giallo”? Un indizio è un indizio; due indizi sono una coincidenza; tre indizi fanno una prova….
Dunque tre piccoli “segnali”, come a volerti dire: se vogliamo, entriamo… Non mi azzardo a dirlo; poi, pur insistendo nella mia “pista” ogni volta che si presentava l’occasione, non si sono più ripetuti. Può dunque benissimo essere una suggestione, una mia fantasia. Però quella raccomandazione-avvertimento di Priore è tornata “fuori”, piccola “vocina”. E va riconosciuta alla Francia una coerenza. Giscard o Mitterrand, Chirac o Sarkozy, Hollande o Macron tutti zitti e omertosi.
Cose che possono capitare, da mettere in conto quando ci si occupa di vicende come queste: dove all’inizio tutto sembra chiaro; poi, man mano che si procede, tutto si fa oscuro e ingarbugliato. Uno che sapeva tanto, la sapeva lunga, il conte Alexandre François Marie Joseph de Marenches, è morto il 2 giugno 1995; è stato a lungo direttore generale dello SDECE, il Service de documentation extérieure et de contre-espionnage. In tutte le fotografie, sotto quei baffetti, un beffardo sorriso; quasi a voler dire: io so, voi no; voi sapete che so, e sapete che non parlerò. Questa è la mia forza e potere. Aveva ragione Cossiga: gli americani sono puritani. I francesi decisamente no.